Uno dei paradossi della Società che dovrebbe essere fondata sulla conoscenza, è che basta ripetere un sufficiente numero di volte una certa tesi in televisione per farla diventare vera. Ciò vale, ad esempio, per lapriorità ormai incontrastata che politici e analisti assegnano ai consumi interni come leva per far “ripartire” un’economia italiana che è ferma da vent’anni. Ma chi l’ha detto? Come viene dimostrato? Il dettaglio non è del tutto triviale, visto chesulla base di queste assunzioni il governo ha deciso di puntare molte delle sue carte sugli 80 euro ai lavoratori dipendentie più recentemente alle mamme.
Se quelle assunzioni sono però sbagliate, se più che i consumifossero gli investimenti la variabile critica nell’equazione della crescita italiana ed europea, dovremmo allora cambiare le scelte di politica economica, quelle delle leggi di stabilità ed i protagonisti dai quali ci aspettiamo le risposte decisive. In questo senso, sono il sottosegretario Del Rio e il presidente della Commissione europea Junker quelli che hanno in mano le carte potenzialmente più importanti per far ripartire l’economia – italiana ed europea- dagli investimenti. Investimenti che devono rispondere ad una strategia, però.
L’assoluta centralità dei consumi, in effetti,èsmentita dai numeri: negli ultimi tre anni sono scesi (di 2,3 punti percentuali all’anno), ma molto di più sono crollati gli investimenti (4,9%). Nelle previsioni della Commissione europea di qualche giorno fa, se i primi ricominceranno timidamente a crescere quest’anno e quello prossimo, i secondi continueranno a diminuire. E ciò vale anche per quella metà di domanda aggregata che è creata dallo Stato. La spesa pubblica viene tuttalpiù contenuta; sono in picchiata gli investimenti in infrastrutture, dall’alta velocità alla banda ultra larga. Infrastrutture la cui presenza determina, a sua volta,il volume di investimenti privati ed, in particolare, di quelli stranieri che continuano ad essere, come ha ricordato il governatore della Banca d’Italia Visco, molto inferiori alle potenzialità che ha un Paese come l’Italia.
Gli investimenti contano di più dei consumi, dunque. Perché essi hanno un effetto “moltiplicatore” della ricchezza – direbbe Keynes – che i consumi non hanno. Ma anche perché tendono a dispiegare i propri effetti positivi nel tempo, mentre un incremento dei consumi può essere come paglia che brucia in un focolare che si sta spegnendo. Perché in un’economia globalizzata, una quota parte elevata dei consumi tendono a produrre domanda per beni e servizi di altri Paesi, mentre maggiore è la percentuale della spesa in conto capitale che rimane in Italia. Ma, soprattutto, perché un incremento del capitale fisso a disposizione di un’economia segnala che migliora la fiducia che una società ha nel suo futuro.
In questo senso è significativo che il primo esponente del Governo che si è trovato a dovercommentare le previsioni della Commissione europea sull’andamento dell’economia, sia stato il sottosegretario Graziano Del Rio all’incontro nel quale si presentava l’”accordo di partenariato” che governa il più sostanzioso pacchetto di investimenti che l’Italia avrà a disposizione nei prossimi anni: 64 miliardi di euro di fondi strutturali cofinanziati dalla Commissione Europea, una cifra sufficiente a finanziare per sette anni l’estensione della detrazione di 80 euro a tutti i lavoratori italiani.
È significativo perché anche Keynes oggi concorderebbe che non basta più “scavare buche e, poi, riempirle” per uscire da questa Grande Crisi e i fondi strutturali sono stati finora usati proprio per scavare buche inutili e giustificare l’esistenza di un apparato amministrativo e di consulenti in costante affanno.
Gli investimenti pubblici sonocondizione necessaria per lo sviluppo e l’innovazione, come dice l’economista Mariana Mazzucato. Ma per esserne anche condizione sufficiente, essi devono essere in grado di mobilitare ulteriori investimenti da parte delle imprese, aumentandone il tasso di ritorno atteso. Per riuscirci, è obbligatorio che un programma di sviluppo faccia scelte, identifichi “specializzazioni intelligenti”, aree sulle quali esiste un potenziale vantaggio competitivo che un Paese può sfruttare se l’investimento pubblico rimuove un ostacolo al suo conseguimento. Queste scelte –nell’accordo di partenariato- non si vedono. E non si vedono i metodi per poterle effettuare in futuro. La ragione è che l’intero processo di definizione dellapolitica industriale e di ricercadel Paese è lasciato ad una pubblica amministrazione che non è pagata per fare tali scelte e non è formata per averne le competenze.
Ragionamento analogo, vale per chi – a livello europeo – dovrà porsi lo stesso problema di estrarre il massimo valore possibile da risorse scarse. C’è da augurarsi che il primo serio banco di prova di Junker siano i termini delprogramma di 300 miliardi di euro che haannunciato (e non l’esistenza – nota da tempo – all’interno di un’Unione squilibrata di paradisi fiscali, come il Lussemburgo di cui è stato Premier). Anche in questo caso, 300 miliardi possono essere nulla se il presidente della Commissione europea dovesse limitarsi a richiamare voci di un budget già deliberato ed allocato per i prossimi sette anni. Tanti se verrà chiarito che sono soldi freschi e ci si prende l’impegno a investire in intelligenza per puntare il cannone delle risorse nuove su poche grandi priorità, sulla rimozione delle strozzature(infrastrutturali ma anche regolamentari) che tengono lontani gli innovatori dall’Europa.
Un altro appuntamento importante per Junker è la revisione entro Marzo della strategia Europa 2020 che è il riferimento per gli investimenti sull’innovazione che devono portare il continentefuori dalla crisi. Essa va ripensata almeno in tre fondamentali direzioni. Bisognaabbandonare l’obiettivo di un aumento complessivo della spesa in ricerca e sviluppoe chiarire chela Commissione giudicherà gli Stati e le Regioni per quanto gli investimenti pubblici hanno prodotto un aumento della spesa delle imprese in innovazione. Bisognerà cominciare a coinvolgere i privati che vorranno rischiare i propri quattrini nella selezione dei progetti di innovazione, per uscire dal paradosso che vede le amministrazioni pubbliche gestire, in perfetta solitudine, iniziative che richiedono un’attitudine al rischio che un funzionario pubblico non potrà mai avere. Sarà, infine, indispensabile che la Commissione accompagni gli investimenti chiedendo ai Paesi una lotta senza quartiere agli adempimenti inutili che, secondo la classifica della Banca mondiale (doing business) che misura la facilità di fare impresa, abbassano la propensione ad investire. In Europa e soprattutto in Italia.
Ha ragione Renzi quando dice che l’Italia deve essere rispettata dai “burocrati di Bruxelles”. Ma per riuscirci bisogna avere l’umiltà di riconoscere che dobbiamo ancora costruire una burocrazia italiana all’altezza della sfidadalla quale dipende buona parte della possibilità di smentire le previsioni della Commissione Europea. Del resto, la burocrazia agisce dovunque nel mondocome un gas: si espande occupando i vuoti della politica, quando la politica si svuota di contenuti e diventa comunicazione. Per ricominciare a crescere è indispensabile ricominciare ad investire. Ma per farlo sono indispensabili governi che ricomincino a fare strategia. Andandosi a prendere la conoscenza dovunque essa sia. Visto che questo è l’unico vero vantaggio di essere democrazia.
Articolo pubblicato su Il Messaggero del 11 Novembre