Viviamo in una epoca di “globalizzazione”, ma anche in una epoca che ha perso ogni illusione verso le grandi organizzazioni internazionali e soprattutto verso le comunità allargate, come abbiamo visto con la freddissima reazione (di quasi tutti) all’assegnazione del Premio Nobel per la Pace all’Unione Europea. Eppure, e io penso che dovrebbe sottolinearlo nel modo più forte la nostra generazione (i tristemente noti “giovani”), ora più che mai andrebbe propugnato un nuovo cosmopolitismo, ancora più radicale. Per chi studia filosofia, poi, questo dovrebbe essere un imperativo. Il cosmopolitismo è in tutti i sensi una invenzione filosofica: il termine stesso lo coniò Diogene di Sinope e la sua caratterizzazione coincide con quello che, forse, è lo stesso presupposto della filosofia, ossia la constatazione che tutti gli uomini, senza distinzione, partecipano della ragione ed è quindi possibile stabilire delle norme accettate universalmente. Lo sapevano bene gli illuministi, che nella voce dell’Encyclopédie “Cosmopolite”, dopo una brevissima definizione, rimandavano semplicemente alla ben più ampia voce “Philosophe” (voyez Philosophe). Ancora oggi, alcuni dei più autorevoli filosofi sono i maggiori protagonisti del dibattito su questo tema: Kwame Antony Appiah, Jürgen Habermas, Seyla Benhabib, Gayatri Chakravorty Spivak.
Dovremmo, io credo, essere cosmopoliti nell’ambito della cultura, riservando una crescente attenzione, sempre più capace di essere filologica e rigorosa, alle espressioni dei popoli vicini e lontani. Cosmopoliti in politica, accettando una crisi sostanziale del concetto romantico di nazione, e promuovendo una messa in comune delle quote di sovranità che rimangono nelle mani degli Stati tradizionali. Cosmopoliti in pedagogia, auspicando una diffusione maggiore delle conoscenze linguistiche. La nostra fortuna è stata anzitutto quella di aver potuto usufruire delle strutture che ci hanno permesso di viaggiare molto ed anche di vivere all’estero. Una boutade come quella che spesso sentiamo: “La Ryanair ha fatto l’Europa!” può sembrare banale, ma dovremmo riflettere seriamente con Rémi Brague quando dice che gli acquedotti e le strade sono stati dei contributi fondamentali della Romanità alla formazione di un concetto concreto di res publica maior (Seneca). La possibilità di un contatto reale, ancor più della globalizzazione digitale di internet e dei social network, con gli abitanti di qualsivoglia regione del mondo ha fatto cadere (per fortuna!) molti miti e sorgere molti interrogativi, specie se il contatto è con gli ultimi, con i reietti della società mondializzata. L’opzione del ritorno al passato, di una chiusura localistica in grado di proteggerci, sappiamo bene trattarsi di una velleità irrealistica: siamo oramai immersi nel cosmopolitismo, volenti o nolenti, e ci dobbiamo impegnare a favorire questo processo, piuttosto che metterci di traverso. Con tutte le obiezioni possibili, rimane, a mio avviso, una delle grandi missioni odierne di chi è giovane, in particolar modo se si occupa di filosofia.
Jacopo Francesco Falà