L’ultima pubblicazione di Elena Loewenthal “Contro il Giorno della Memoria” ha riaperto il dibattito su memoria e storia con la precisione di un bisturi e la delicatezza di una mannaia. Decisa e pesante è apparsa infatti la sua posizione, contraria alla memoria forzata “che non è utile o benefica di per sé” e quasi supplichevole di un oblio istituzionalizzato. L’estratto del pamphlet uscito su La Stampa il 16 gennaio, ha suscitato la reazione dell’opinione pubblica (basti pensare alle reazioni sui social network, in termini di condivisioni e commenti dell’articolo) e degli intellettuali. Da Pierluigi Battista che sul Corriere della Sera del 20 gennaio che lo ha definito “Un’analisi impietosa dell’assunto che sta alla base di una iniziativa lodevole e nata con le migliori intenzioni: l’assunto secondo il quale il ricordo pubblico, mentre i sopravvissuti se ne vanno e svanisce fatalmente l’esperienza di una memoria diretta dello sterminio, possa fare da antidoto alla ricaduta nella barbarie”. A Mario Pirani che critica il fallimento della memoria come terapia, sostenuto dalla Loewenthal, in un commento pubblicato su la Repubblica del 3 febbraio e intitolato “Contro il Giorno della Memoria?”.
L’autrice, nota scrittrice e saggista di ebraismo (…) si è distinta in questi anni per accurate ricerche sulla mistica ebraica e l’antisemitismo. Ed ora? Ora scopre all’improvviso di essere “Contro il Giorno della Memoria” di cui vorrebbe dimenticare tutto.
Pirani scrive della Loewenthal. Ma i punti interrogativi di Pirani che inizialmente sembrano lasciarsi interpretare come espressioni di stupore (forse addirittura sdegno), si trasformano alla fine in un’interrogazione sincera e accorata di un nuovo dibattito.
Questa ed altre recenti sollecitazioni, compresi i suoi aspetti più biechi (come la sconcezza dei maiali), non vi è dubbio che attualizzano questa giornata proponendo nuovi interrogativi su odiosi vecchi schemi che si riaffacciano. Simile all’antisemitismo degli anni Trenta, infatti, quello odierno sfocia in un pericoloso internazionalismo, dai Paesi Baltici alla Francia, dalla Grecia all’Ungheria. Un ignobile e non ignoto fetore si leva sull’Europa.
Un appello a cui aveva già risposto Massimo Rosati, con l’articolo qui sotto pubblicato il 27 gennaio sul suo blog. Il 30, a soli 44 anni, Massimo ci avrebbe lasciato.
I funerali di Massimo Rosati si svolgeranno mercoledì 5 febbraio alle 12.00 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Roma Tor Vorgata, via Columbia 1 – 00133 Roma
I siti negazionisti proliferano (sembrano anzi in crescita inarrestabile), come pure gli atti di antisemitismo; l’orrendo oltraggio alla memoria della Shoah – ma in generale alla comunità ebraica e al Paese che con essa è solidale – rappresentato dalle teste di maiale recapitate alla Sinagoga di Roma, all’Ambasciata israeliana e al museo della storia in Piazza Sant’Egidio; le scritte sui muri, negli stadi, i report scientifici, insomma tutto sembra dire che l’allarme antisemitismo è quanto mai alto, e che la cura adottata contro questa patologia sociale è stata del tutto inefficace. La quattordicesima Giornata della Memoria è dunque anche, inevitabilmente, occasione di riflessione sulla Giornata della Memoria stessa, sulla sua efficacia o inefficacia, sulla sua incapacità di comunicare, sulla eterogenesi dei fini che essa sembra comportare. Una riflessione che va avanti da tempo, e che è bene che ci sia.
Tra i contributi recenti sul tema, fa riflettere il Contro il giorno della memoria, di Elena Loewenthal. Titolo ‘secco’, tranchant, come molte affermazioni nel testo, ma in realtà testo nel suo insieme molto più sfumato e sfaccettato di quanto titolo e singole affermazioni facciano di primo acchito pensare. Al di là del livello personale – il rapporto della Loewenthal con la Shoah – verso il quale non si può che avere rispetto; al di là delle tesi sul rapporto tra Shoah e Israele – lo Stato ebraico è nato nonostante, non grazie alla Shoah –, il libro contiene alcuni spunti sul Giorno della Memoria e sulle modalità della sua celebrazione in Italia che sono di grande interesse. In sostanza, la tesi della Loewenthal è che il Giorno della Memoria fallisce completamente i suoi obiettivi (fino anzi ad ottenere effetti inintenzionali di segno opposto) a causa di un equivoco di fondo, uno snaturamento, una distorsione (tutti termini usati dall’autrice) che lo caratterizza: il GdM è diventato “una specie di (postumo) atto di omaggio agli ebrei sterminati”. Non una ricorrenza ‘introspettiva’, un modo per l’Europa per guardarsi con gli occhi attoniti dei soldati russi che entravano ad Auschwitz, per riflettere sul fatto che l’Europa è un immenso cimitero, che sotto un sottile strato di terra, sotto i nostri piedi, ci sono le ossa di milioni di cadaveri senza nome. Gli ebrei non hanno alcun bisogno che si dica loro di ricordare, e per lo spazio che costitutivamente la memoria ha nell’identità ebraica e perché “quella storia ce l’hanno scritta addosso”. La memoria della Shoah, scrive l’autrice, “è di tutti gli altri”, e il GdM nasce come invito all’Europa tutta a riflettere su come sia stato possibile, quali condizioni abbiano permesso quel che è stato; uno sforzo conoscitivo, un momento di auto-analisi, un incremento di riflessività. Da stimolare e conseguire mediante l’istituzionalizzazione di un momento ritualistico.
Qui la gran parte degli osservatori vede naturalmente una contraddizione. È proprio la dimensione ritualista e commemorativa – tanto più quando istituzionalizzata – che confligge con conoscenza e riflessività. La tesi della Loewenthal, a questo proposito, è invece più accorta e sofisticata. Il problema, sembra sostenere, non è di per sé il carattere rituale delle commemorazioni del 27 gennaio, quanto piuttosto una ricerca spasmodica di ‘qualcosa di nuovo’, che renda gli ‘eventi’ meno noiosi possibili, con l’effetto di ingenerare ridondanza e saturazione. Il rito, invece, per sua stessa natura, dovrebbe essere ripetizione, meccanismo peraltro (osserva ancora l’autrice) fondamentale sia nella vita collettiva sia nei processi di apprendimento individuale. Perché, dunque, non leggere sempre gli stessi libri, non guardare sempre lo stesso spettacolo teatrale, non commentare sempre lo stesso passo di Primo Levi, rivedere lo stesso film; perché questa ansia – delle scuole e delle istituzioni – di “rinnovamento, di ricambio, di dare un taglio inedito alla celebrazione, di non dire il già detto”? Perché la memoria non è ‘sincera’, non è quell’atto di introspezione che avrebbe dovuto essere, una riflessione su come abbiamo potuto – come italiani, come europei, come esseri umani – ma un ipocrita risarcimento postumo alle vittime.
Nel dibattito su memoria e storia, opportunità o meno del 27 gennaio etc., ho sempre ritenuto di dover essere scettico nei confronti del montante scetticismo verso il momento ritualistico della commemorazione (https://www.reset.it/blog/27-gennaio-la-memoria-oltre-gli-abusi). Eppure, mi sentirei di concordare totalmente con la posizione della Loewenthal, nei termini in cui sopra sintetizzata. Semplicemente perché non vedo contraddizione alcuna tra quanto da lei sostenuto e la ratio originaria del GdM. Che esista un giorno del nostro calendario civile – e che questo giorno sia il 27 Gennaio, nonostante le buone ragioni di Furio Colombo a favore del 16 ottobre (altra questione nella quale non entro ora) – in cui ci invitiamo collettivamente a riflettere sulla Shoah (senza con questo sostenere che si debba trattare dell’unico giorno nell’arco dell’anno in cui farlo, cosa che nessuno può seriamente pensare) non è in linea di principio in contraddizione alcuna con l’intento di fare di questo giorno un momento di auto-analisi e auto-critica, con lo sguardo rivolto a ieri – e non senza una forma di solidarietà anamnestica, che deve essere conservata, qui sì, in ferma opposizione a quanto sostenuto dall’autrice – e rivolto al presente e al futuro. Ma l’equivoco va chiarito: la memoria da ‘fare’ insieme – cristiani e musulmani, ebrei, altrimenti credenti e non credenti – è memoria in primo luogo delle nostre responsabilità, del marcio che c’era e c’è in quei ‘noi’ – Italia, Europa, modernità occidentale – che hanno reso possibile Auschwitz, e solo in seconda battuta memoria, ad esempio, dei giusti. Memoria delle vittime, certo, come potrebbe non essere così; ma non prima, non solo, non senza memoria delle legge razziali, memoria del colonialismo, memoria delle patologie della razionalità strumentale. E per far questo, ha ragione la Loewenthal, non serve alcuna corsa all’‘evento’, all’innovazione, all’ingegneria della commemorazione. La Loewenthal lo sa molto meglio di me, che per capire, per conoscere, c’è bisogno di ripetizione (in ebraico, la radice della parola Mishnà, insegnamento, ha in sé il concetto di shanà, il ripetere, ed ha la stessa radice della parola anno, il tempo nella sua ciclicità); come sa, molto meglio di me, che senza ripetizione è difficile che si dia il chidush, l’innovazione. Non è, dunque, la ripetizione dell’evento commemorativo, di per sé, a confliggere con conoscenza e riflessività; forse, piuttosto, dobbiamo mettere un freno alla ridondanza delle ‘celebrazioni’ (che, come ci insegnano gli antropologi, non sono la stessa cosa dei riti), alla rincorsa alla costruzione dell’evento; forse dobbiamo imparare a leggere ogni anno lo stesso libro, lo stesso brano di Primo Levi, guardare lo stesso film, e nella ripetizione imparare a guardarci con gli occhi attoniti delle truppe sovietiche.
un articolo che spiega molto bene la shoah
Un articolo bellissimo che analizza un percorso introspettivo che tutti noi dovremmo percorrere. Il Giorno della Memoria dovrebbe obbligarci ad una riflessione profonda sui nostri errori, sulle nostre responsabilità e dove abbiamo sbagliato, perché le leggi razziali, la discriminazione il razzismo noi l abbiamo permesso, oggi noi critichiamo ma i nostri nonni, i nostri padri lo hanno accettato. Guardavo la foto di una bella donna, elegante tipico esempio della ricca classe borghese ferma davanti all vetrina di un negozio dove campeggiava un cartello ” negozio ariano vietato agli ebrei” ma allora nessuno strappava quel cartello, non si sono sentiti indignati da quella violazione dei diritti umani, hanno permesso che tutto questo avvenisse, soltanto con una riflessione profonda della responsabilità individuale potremo forse evitare che simili episodi si ripetano. Ho organizzato per il 27 gennaio insieme a Viviana Kasam l evento I Violini della Speranza, il giorno prima uscendo dall’ ufficio ho visto scritto a lettere cubitali “Hanna Franck bugiardona e la svastica” sono rimasta immobile a chiedermi che popolo stiamo diventando. Marilena Citelli Francese