Una prigione a cielo aperto, dove vivono ammassate 1,9 milioni di persone, il 56 per cento minorenni. Isolata dal mondo, messa in ginocchio da un assedio che dura da tredici anni, con un sistema sanitario collassato, con il 97 per cento dell’acqua non potabile. Nell’era del Coronavirus la più grande preoccupazione, tanto dell’autorità palestinese quanto di quella israeliana, è la diffusione del virus nella Striscia di Gaza.
“Immagina due milioni di esseri umani che vivono nello spazio di soli trecentosessantacinque chilometri quadrati. Uno dei luoghi più densamente popolati del pianeta terra, confinato in una gabbia da cui non possono fuggire. Questi due milioni di persone non possono andarsene, anche se volessero, senza grandi difficoltà. Devono vivere la propria vita entro i confini di questa zona di terra in rapido deterioramento, alcuni persistono nella speranza che un giorno le cose possano cambiare, ma molti sopravvivono con la consapevolezza che potrebbero non farlo. Indipendentemente dal loro grado di ottimismo o pessimismo, tutti sono isolati dal resto del mondo. Chiamiamo questo posto la Striscia di Gaza, ed è stato bloccato da Israele dal 2007” scrive su Haaretz, il quotidiano progressista israeliano, Shannon Marre Torrens, avvocato internazionale e per i diritti umani, con una vasta esperienza in materia: ha lavorato presso i tribunali penali internazionali delle Nazioni Unite per l’ex Jugoslavia, Ruanda, Sierra Leone e Cambogia e con il Tribunale penale internazionale.
E prosegue: “Se sei rinchiuso in una gabbia, sei protetto – ma, allo stesso tempo, sei anche molto più a rischio di essere gravemente colpito. Se la gente di Gaza non si sente bene, a qualcuno importa, non più che nella minima misura che ha in passato? Cambierà qualcosa per loro o semplicemente peggiorerà molto? Con notevoli problemi economici a Gaza, il più alto tasso di disoccupazione nel mondo e la mancanza di forniture a causa delle restrizioni all’importazione di beni, è impossibile per le famiglie fare scorta di articoli e medicinali essenziali. Quelli con problemi di salute esistenti sono particolarmente vulnerabili alla malattia. Con la salute generale di molte persone a Gaza in costante calo a causa di un grave deficit sanitario e di un basso tenore di vita, la popolazione ne risentirebbe in modo univoco. È improbabile che gli abitanti di Gaza avranno un facile accesso ai kit di test se saranno sospettati di contrarre Covid-19 e ancora più improbabile che riceveranno cure mediche adeguate se saranno effettivamente infettati. Nel migliore dei casi, quando i pazienti a Gaza sono così malati da chiedere il permesso a Israele di partire attraverso il valico di Erez per cure mediche in Cisgiordania o in Israele, spesso non ricevono risposta o vengono respinti. Nel caso di un focolaio di coronavirus a Gaza, la probabilità che vengano respinte le autorizzazioni di uscita per l’assistenza medica è quindi elevata, in particolare se Israele sta lottando contro il proprio focolaio”.
Il titolo della sua analisi è, insieme, una drammatica constatazione di fatto e un disperato appello alla comunità internazionale:
“Coronavirus è una condanna a morte per i palestinesi ingabbiati a Gaza. Nella prima fase della diffusione del virus molti articoli definivano Gaza il luogo più sicuro in cui trovarsi, elogiando i risvolti positivi che le restrizioni alla libertà di movimento per e dalla Striscia imposte da tredici anni da Israele avevano avuto fino sul contenimento del Covid-19. A un mese dall’inizio del contagio, le valutazioni sulla Striscia sono decisamente cambiate: adesso la diffusione del virus nell’enclave palestinese è descritta dalla sicurezza israeliana come un “God-save-us scenario”.
Lo stesso Hamas sta decidendo se imporre a sua volta un’ulteriore restrizione ai movimenti dei cittadini di Gaza, ben consapevole degli effetti disastrosi che la diffusione del virus avrebbe nel territorio sotto il suo controllo. Secondo il The Jerusalem Post, saranno costruite due serie di strutture nel nord e nel sud della Striscia di Gaza, con un totale di cinquecento stanze per gli individui che richiedono la quarantena.
Il direttore del dipartimento per la sanità e l’ambiente del Comune di Rafah, Mohammed Mohammed, ha spiegato che la struttura vicino a Rafah sarà costruita su un terreno a ovest della città. Sarà coordinato dal comune, dal comitato di sorveglianza del governo, dai servizi idrici locali e dalla compagnia elettrica.
Fonti locali confermano che il leader di Hamas nella Striscia di Gaza, Yahya al-Sinwar, sta supervisionando personalmente i lavori di costruzione in entrambe le aree. I funzionari sanitari palestinesi hanno espresso preoccupazione per il fatto che se e quando saranno rilevati casi di coronavirus nella Striscia, gli ospedali locali non saranno in grado di far fronte a un gran numero di pazienti infetti. “La Striscia di Gaza è un’area densamente popolata, dove il virus potrebbe diffondersi molto rapidamente”, ha detto un funzionario. “Il sistema sanitario nella Striscia non ha gli strumenti e il personale per gestire decine di casi infetti. Abbiamo undici grandi ospedali e decine di cliniche, ma non saranno in grado di ricevere un gran numero di pazienti. Ciò potrebbe provocare una crisi umanitaria reale e senza precedenti”.
Il 97 per cento di tutta l’acqua di Gaza non è adatta al consumo umano, secondo l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), il che pone un interrogativo estremamente urgente: come potrebbero gli ospedali di Gaza affrontare l’epidemia di Coronavirus quando, in alcuni casi, l’acqua pulita non è nemmeno disponibile allo Al-Shifa, l’ospedale più grande di Gaza?
Anche nei casi in cui l’acqua è disponibile, i medici, gli infermieri e il personale sanitario non sono in grado di sterilizzare le mani a causa della pessima qualità di quest’ultima.
Il gel disinfettante per le mani è sempre stato quasi introvabile; le norme igieniche basilari sono spesso disattese per cause di forza maggiore; l’elevatissima densità di popolazione e le abitudini sociali quali a esempio le frequenti strette di mano rendono Gaza un luogo nel quale il virus si diffonderebbe in maniera incontrollata nel giro di un paio di settimane.
Il sovraffollamento degli ospedali, la carenza di macchinari per la ventilazione meccanica e di posti letto in terapia intensiva, l’inquinamento e le conseguenti patologie che affliggono una gran parte della popolazione gazawa che risulta malata ed immunodepressa, porterebbero a una mortalità esponenzialmente più elevata rispetto al resto del mondo.
A ciò si aggiunge la mancanza cronica di medicine e prodotti sanitari di base, senza contare l’inadeguatezza delle strutture sanitarie in caso di ricoveri in terapia intensiva e un sistema già al collasso da mesi. A complicare la situazione è anche arrivato lo stop ai rifornimenti di cibo da parte dell’Unrwa, l’agenzia dell’Onu che si occupa dei rifugiati palestinesi. “Gli aiuti alimentari – ha detto il portavoce Adnan Abu Hasna – saranno temporaneamente sospesi finché non si troverà un modo più sicuro per erogarli». «Naturalmente – ha aggiunto – si tratta di una misura precauzionale per mantenere la sicurezza del personale e dei beneficiari» degli aiuti. La Striscia di Gaza non ha più la possibilità di effettuare i tamponi per il coronavirus. “I test presso il nostro laboratorio centrale si sono interrotti dopo che i kit si sono completamente esauriti”, ha annunciato nei giorni scorsi il portavoce del ministero della Sanità Ashraf Al Qidra, sottolineando la situazione precaria in cui versa il sistema sanitario a Gaza, chiusa da oltre 13 anni in un rigido blocco attuato da Israele. Al Qidra ha aggiunto che dozzine di campioni sono in attesa di essere testati ma mancano i reagenti. Di conseguenza le persone in attesa dei risultati dovranno rimanere in quarantena a tempo indeterminato. Quindi ha fatto appello alle organizzazioni internazionali affinché forniscano kit per i test, oltre a 100 ventilatori polmonari e 140 letti per le unità di terapia intensiva.
Al momento, 3.570 abitanti nei Territori occupati sono in quarantena, di cui 2.676 nella Striscia di Gaza, e tutti i palestinesi musulmani sono stati esortati a limitare le preghiere nelle proprie abitazioni, senza recarsi in moschea. Ma per gli “ingabbiati di Gaza” non può bastare per evitare la condanna a morte per virus.
Per Gaza non c’è resurrezione.