Per molti motivi la filosofia si trova oggi di fronte a una crisi di identità, che la costringe a fare i conti in maniera differente dal passato con la sua legittimazione culturale e sociale. La disciplina si radica come ogni altra in un contesto socioeconomico con cui intrattiene da tempi immemorabili un costante interscambio e con il quale è tuttavia riuscita, per molto tempo, a evitare un confronto diretto. Questo, d’altro canto, avrebbe messo a nudo le ragioni ma ancor prima le contraddizioni di chi domanda alla società un sostentamento senza lasciarsi imporre alcun preciso dovere, o senza obblighi contrattuali di un contributo attivo allo sviluppo di essa.
Bella, nobile e sfacciata la filosofia è sinora riuscita a valorizzare il peso della sua storia, della sua gratuità e della sua libertà, arrotondando di volta in volta un cospicuo vitalizio con consulenze a favore di quella o di quell’altra fazione ideologica o vendendo la propria immagine sul mercato dell’industria culturale. Una stabilità socioeconomica di cui essa ha goduto senza preoccupazioni per il futuro ma che oggi, in tempi di magra, si vede porre in discussione senza possibilità di contrattazione. Una radicale riconfigurazione della società e la contemporanea diminuzione degli emolumenti destinati alla cultura pone infatti i filosofi di oggi dinnanzi alla necessità di mostrare e far valere i nudi risultati della loro attività, senza far leva su alcun diritto acquisito. Cosa che, a quanto sembra, la filosofia stenta a fare, giacché nel corso degli ultimi decenni ha da una parte subìto il predominio concettuale delle “scienze dure”, e dall’altra trascurato un ammodernamento del proprio ruolo, delle proprie competenze tecniche e del proprio armamentario di lavoro.
A dire il vero è in primo luogo la parola “filosofia” a suonare oggi come vetusta ed equivoca. Il termine, come è noto, ha origine nel mondo greco e significa “amore per il sapere”, ma nasce allo scopo di indicare un ampio sistema organico di discipline che attualmente non esiste più. Con il generico termine “filosofia” si è infatti inteso fin dall’antichità un vero e proprio atteggiamento complessivo verso la realtà naturale, sociale e politica, e non quella specifica attività di riflessione sull’essere e sui principî primi trascendenti del reale che è la metafisica, o, nella sua versione latina, la filosofia prima. Vero e proprio centro operativo del sapere antico, a quest’ultima è stata per secoli affidata una costante coordinazione e “omogeneizzazione” teorica di saperi relativi a singoli oggetti – come la fisica, la politica, la morale, e così via; tasselli che solo una volta riconnessi in questo senso andavano a comporre il grande mosaico di un sapere “filosofico” in senso ampio.
Sembra che già nelle intenzioni di Aristotele, d’altro canto, la metafisica nascesse nella ricerca di una “disciplina delle discipline”, capace di incasellare le nostre conoscenze in una struttura unitaria, in grado di riflettere l’ordinamento interno del reale: una scienza che è “prima” nell’intero complesso del conoscibile e che garantisce che ogni tipo di sapere sia, pur nella sua indipendenza, intrinsecamente filosofico, ovvero contribuisca a una visione complessiva e coerente delle cose. Ciò non significava, quindi, né che le varie scienze mancassero di un loro oggetto peculiare, né che esse fossero concettualmente disgiunte tra di loro, bensì che al contrario esse fossero, nella loro diversità, riconnesse da un’attività trascendente i loro contenuti concreti. Adattando (e sfigurando) una perspicua espressione del pensiero medievale potremmo perciò dire che i due livelli costitutivi della filosofia hanno permesso di sovrapporre nella medesima disciplina il ruolo di quo est – ovvero di ciò che in quanto “disciplina delle discipline” gode di una sua indipendenza essenziale e funzionale – e di ciò quod est – ovvero di ciò che dall’attività di coordinazione dei saperi viene all’esistenza come sapere filosofico.
Se corretta, questa doppia e circolare struttura evidenzia forse una costituzione della filosofia originariamente autoaffermativa e autoreferenziale, nel solco della quale sono tuttavia stati singoli personaggi – detti per questo “filosofi” – a far propria di volta in volta una molteplicità di scienze, coordinandole tra di loro in sistemi coerenti. Nel suo tentativo di integrazione tra metafisica e teologia, ad esempio, Tommaso d’Aquino non poteva certo esimersi dall’affrontare questioni riguardanti la natura, la psicologia, la società, la medicina e l’arte; e allo stesso modo perfetti esemplari di “filosofi” di età moderna come Descartes, Hobbes o Spinoza potevano esser detti tali solo per aver tentato di connettere in un’attività unitaria i loro vastissimi interessi metafisici, fisici, astronomici, medici e politici, a volte anche degni di uno specialista nel campo e ad ogni modo concretamente al centro del loro quotidiano lavoro.
E’ quindi in questo senso “antico” che ancor oggi omaggiamo del titolo di “filosofi” personaggi delle più varie provenienze – sono egualmente “filosofi” Erasmo da Rotterdam, Steve Jobs, Werner Heisenberg e Bob Dylan – che hanno in comune il solo fatto che la loro produzione artistica, tecnica o scientifica, abbia esondato i limiti del suo naturale alveo e abbia goduto di una risonanza interdisciplinare e di ampio raggio nella storia della cultura. Anche per questo diviene ben difficile, oggi, non accostare all’apposizione “filosofo” quella di un più peculiare campo d’azione: “filosofo e politico”, “filosofo e psicanalista”, “filosofo e sociologo”, ec: è con la stessa e “generica” accezione di un tempo, infatti, che classifichiamo ancor oggi come “filosofiche” una gran quantità di questioni a cui rispondono invero discipline distinte e indipendenti dalla filosofia, come la sociologia, l’antropologia, la psicologia, ecc.
Ma tutto questo ha il forte retrogusto dell’inattualità: il sodalizio tra le varie scienze, la filosofia quod est, è da parecchio tempo giunta alla fine. Sulle ragioni di questo smembramento non è qui possibile soffermarsi, ma certamente esse si legano a doppia mandata alla costituzione, in piena età moderna, di una pluralità di istituti specifici e indipendenti delle varie discipline, nonché di metodi peculiari, strutturati e organizzati ad hoc. A partire da questo momento la colossale filiera produttiva della filosofia è stata progressivamente esternalizzata, per dar luogo a piccole e grandi comunità scientifiche, finalizzate a indagini contestuali e quasi per nulla metadisciplinari. In questo nuovo assetto socioculturale il “filosofo”, con il suo antico compito di supervisione, è stato eiettato al di fuori della discussione culturale attiva, e il suo compito di coordinazione di macrosistemi di sapere è stato parcellizzato in una miriade di interventi contestuali, volti a un dialogo tra discipline reciprocamente incommensurabili.
Di fronte a simili mutamenti la filosofia come “disciplina delle discipline” non è stata tuttavia destituita del tutto e, complice una serie di saperi ad essa storicamente solidali, ha potuto mettere in atto alcune reazioni, che hanno tuttavia inciso in modo rilevante sulla sua identità. Da una parte essa si è sforzata di mantenere il suo ruolo di garante trascendente di un sistema di sapere, sacrificando tuttavia a quest’impresa la specificità concettuale della metafisica, ridotta a un lavoro di critica concettuale o di supervisione epistemologica a favore di altre discipline. Dall’altra essa ha avviato un rilevante processo di auto-musealizzazione, ripiegandosi sulla propria storia nel tentativo di ribadire i propri meriti nella genesi di concetti-chiave e forse in quello – più meschino – di ostentare per questo un diritto acquisito alla sopravvivenza; in questo caso essa si è ricatalogata in funzione di un elenco dei contenuti che storicamente aveva ospitato, sovrapponendo in modo spesso improprio la storia dell’intera cultura occidentale con quella della sola speculazione metafisica e giungendo alle paradossali e divergenti conclusioni che l’attività filosofica si riduce alla sua stessa storia, o che ogni forma di sapere è ancor oggi filosofia o oggetto precipuo di essa. In altri casi, infine, la filosofia “prima” si è ribellata al suo stesso ruolo “forte” di coordinazione del sapere e, dismesse una volta per tutte le insegne della metafisica, si è identificata con un filone sapienziale della produzione intellettuale e in questa prospettiva ha intrapreso un’attività di connessione e relativizzazione di questioni volta a delegittimare il valore veritativo di altre forme di sapere sulla base di una visione “debole” della teoresi, ridotta a pura e semplice riflessione personale o tutt’al più antropologica sul contingente.
In molti se non i tutti i casi, insomma, la filosofia sembra essersi trasformata da “disciplina delle discipline” in un esercizio di critica reazionaria, priva di un peculiare compito, mancante di un esplicito oggetto e tesa a irretire altre scienze in campi, nozioni e vocabolari ad essa omogenei, da essa in qualche modo controllabili. Sulla stessa linea, nonostante una pretesa natura dialettica, essa ha continuato a privilegiare (almeno in ambiente continentale e comunque più di ogni altra disciplina) il singolo contributore come il centro gravitazionale della propria attività, dacché quest’ultima ha continuato a trovar sede più nei suoi continuatori individuali che in un sistema ordinato e omogeneo di questioni e proposte: ancor oggi, significativamente, la filosofia si studia nei licei come una carrellata di sistemi individuali che danno vita a movimenti e a controproposte più che come un insieme stabile di problematiche a cui i singoli hanno tentato di apportare soluzioni condivisibili.
Questo atteggiamento di fondo, legittimando di fatto un anacronismo, ha permesso alla filosofia di mantenersi in precaria ma sufficiente salute; ma l’espediente è stato quello di presentarsi come versione indebolita e opaca di sé stessa, assumendo lo status di prassi intellettuale autosufficiente, in grado, come un Re Mida del concetto, di tramutare in preziosa riflessione tutto quel che tocca. Rinserrato in roccaforti accademiche il pensiero filosofico è divenuto troppo spesso un sapere senza tempo – nella pessima accezione di un sapere che ha abbandonato e perduto la propria dimensione storica e ha cessato di pensarsi in divenire. Appena in grado di vegliare i propri incerti confini esso difende a stento la sua reputazione innanzi a un proliferare surreale di attività autoreferenziali e a una scarsità quasi cronica di risultati fruibili al di fuori dal suo sistema di riferimento.
Insomma, in questo anelito di sopravvivenza la filosofia ha perso soprattutto la propria identità: alla fondamentale domanda “che cos’è la filosofia?” (su cui invito a prendere visione dell’iniziativa degli amici di Maestri&Compagni) le risposte dei “filosofi” sono varie, sfuggevoli e divergenti e per lo più ripiegano su vuote formule di rito come “è un atteggiamento verso il mondo”, “è la ricerca della verità”, “è quanto sfugge a una definizione”, e così via. E queste, d’altro canto, non restituiscono che parte del generale spaesamento con cui si muovono la ricerca e la didattica negli atenei filosofici: un lavoro che spazia in modo ipertrofico dalla neuropsicologia sperimentale alla filologia classica, dalla teologia alla critica letteraria, dalla logica matematica all’ecologia, ecc., e che sovente manca degli strumenti – e spesso del coraggio – di trarre da questo coacervo di discipline prodotti che non ne siano misere note a margine.
Insomma la filosofia, proprio nel mantenere la sua rilevanza e il suo antico appeal, è venuta a coincidere con “un po’ di tutto e un po’ di niente”: nozioni antiche abbinate a concetti presi in prestito da altre scienze e mai restituiti in nome di quell’unità originaria tra i saperi che la sua funzione coordinativa un tempo generava. Ma nel far ciò essa ha affidato buona parte della sua sopravvivenza nelle mani di altri, ovvero di quelle discipline – l’antropologia, la scienza politica, la sociologia, solo per dirne alcune – che ancor oggi proseguono per sua fortuna ad investire un patrimonio concettuale nella moneta della riflessione filosofica, ma che potrebbero in qualsiasi momento sottrarsi a quest’obbligo di mantenimento.
Eppure viviamo un radicale bisogno proprio di quella filosofia (s)perduta, della sua attività sincretica e di una sua indipendenza operativa. Mai come oggi, nell’epoca di massima egemonia ma anche di più evidente impaccio di quel “nuovo” sistema di sapere che l’ha spogliata del suo status di super-scienza, la filosofia può far valere tutto il peso della sua tradizione e al contempo tutto il suo potenziale innovativo. Dinnanzi a un mondo devastato dalla più irrazionale e insensata speculazione economica, dinnanzi a un sapere tecnico-scientifico in costante crescita di successi eppure sempre meno in grado di maneggiare il senso ultimo delle sue scoperte, dinnanzi a una politica e a una cultura, quelle occidentali, sempre più incapaci di leggere sé stesse in una prospettiva storica, la filosofia deve e può rilanciare al sua posizione, e al contempo legittimare nei confronti della società l’investimento che essa pretende si faccia sulla sua sopravvivenza.
Può farlo, tuttavia, solo abbandonando le varie forme di reazionarismo in cui si è da qualche tempo avvitata e rinunciando una volta per tutte a un anacronismo, a una vita museale e fuori dal tempo, che non ha nulla a che vedere con il mantenimento di una tradizione. Per far questo essa deve avere il coraggio di abbandonare i suoi tradizionali luoghi di isolamento – in primo luogo alcuni confortevoli scranni universitari – e, come lo Zarathustra di Nietzsche, lasciare la sua vuota ascesi per donare al mondo il proprio sapere e ancor prima il proprio contributo.
La miglior risposta di una rinnovata filosofia alle contingenze e alle esigenze del nostro tempo è quella di tornare ad essere filosofia prima – disciplina forte, in grado di coordinare con sguardo trascendente differenti forme di sapere – pur senza cadere nella tentazione di reiterare l’impresa – sforzo titanico quanto fallimentare – di un sistema organico e soprattutto univoco di contenuti. E ciò a partire da una chiara e stabile identità disciplinare, che la riconnetta e la riconsegni alla sua prima funzione: la filosofia ha a che fare con l’elaborazione, lo sviluppo, la ristrutturazione e la demolizione di concetti, in qualunque accezione essi si intendano e a prescindere dai loro singoli fautori; essi sono i mattoni di cui si costituiscono, secondo principî di volta in volta legati alla loro ergonomia concettuale, le numerose discipline con cui quotidianamente la filosofia ha a che fare e di cui, nonostante tutto e pur mantenendo la propria peculiarità, essa deve saper continuamente fare esperienza, saggia come un maestro ma umile come un allievo.
Un pensiero che sia insomma sincronico – che ovvero sappia accompagnare dall’esterno il suo oggetto nel tempo e nel mutamento – e che si dimostri dinamicamente capace di riconfigurare continuamente una sua ben definita identità in relazione al proprio momento storico, compiendo su di esso un costante lavoro critico. Ma anche un pensiero che, grazie a un’insostituibile capacità di maneggiare la genealogia e la struttura interna dei concetti, sia sempre già oltre l’odierno, in grado di disfare e rifare il proprio tempo, generandone costantemente uno nuovo.
Simone Guidi | @twsguidi
Tematica attraente e che invoglia alla discussione.
Mi rendo conto che non è questo il luogo, ma sarebbe interessante analizzare più da vicino il processo storico e metodologico che ha portato la filosofia non solo a smettere di acquisire ma perfino ad espungere quegli strumenti analitici che le consentirono per molti secoli di produrre modelli di ragionamento e linee di pensiero cui è tutt’oggi rivolto l’impegno esegetico di molti studiosi.
La Filosofia non è più “disciplina delle discipline” perché ha perso la capacità di relazionarsi con le altre scienze.
L’attuale crisi socioeconomica e il conseguente fermento all’interno della comunità degli economisti ne sono uno straordinario indicatore.
Mi chiedo, ad esempio, come possa un filosofo partecipare al dibattito sullo sviluppo sostenibile senza disporre degli adeguati strumenti matematici per elaborare e sviluppare i concetti basilari di preferenza temporale, tasso di sconto e controllo ottimo.
Si dirà che non è compito della filosofia entrare nel merito delle argomentazioni scientifiche ma solo di contemplarne i risultati generali.
Bene. Ricordo però che un filosofo del calibro di John Rawls nell’affrontare tematiche inerenti l’equità intergenerazionale ritiene opportuno citare alcuni lavori di Ramsey e Sen i quali continuano ancora oggi ad essere considerati dei “classici” nella letteratura economica sulla preferenza temporale.
Non è il compito della filosofia entrare nel merito delle argomentazioni scientifiche si è detto, ma se desideriamo che essa possa di nuovo esprimere il suo potenziale teoretico in quello che è forse il suo luogo istituzionale e cioè la metafisica, da qualche parte si dovrà pur cominciare.