Nel febbraio 2016 il Segretario di Stato del Vaticano, il cardinale Pietro Parolin, ha tenuto una lectio magistralis sul celibato sacerdotale. E al riguardo del sacerdote, tra l’altro, ha detto: “ Egli, infatti, non solo compie degli atti singoli in persona Christi, ma è chiamato a conformare la vita intera alla missione pastorale del Maestro: vivendo così sulle orme del Cristo in un’offerta libera, totale e gratuita per il Popolo di Dio. Partirei dal primo aspetto, e precisamente dal considerare il paradosso della persona del prete: un uomo configurato a Cristo.”
Forse sono queste le parole più efficaci per dire, in estrema sintesi, per quale motivo non mi convinca del tutto l’idea apparsa su l’Osservatore Romano, un doppio standard sul reato di pedofilia e abusi sessuali, gravissimo comunque, mi pare infatti in parte ammissibile: quei bambini vengono infatti affidati a ecclesiastici da chi di loro si fida e a loro si affida.
L’abuso è comunque grave, la pedofilia odiosa ovunque si verifichi, ma in un ambiente religioso è evidente che il “tradimento” è più profondo, la ferita più ferita. Sorprende che questo possa sorprendere, anche se non vi è dubbio che la “leggerezza” verso altri tradimenti, da parte di corpi dello Stato ad esempio, è grave e biasimevole.
Di questo, di questo profondo dolore, di questo sentimento di “tradimento”, mi hanno parlato alcuni parenti australiani di vittime di abusi durante l’audizione romana del cardinale Pell. Chiedevano fondamentalmente alla Chiesa nel suo insieme di ascoltarli, di sentirli suoi membri, suoi figli. Perché si tratta di genitori cattolici che hanno affidato i propri figli a istituti religiosi cattolici, e chiedono alla Chiesa, a tutta la Chiesa, che ascolti la loro voce in termini umani prima che giuridici.
E’ un po’ quello che è accaduto quando si è dimessa dalla commissione pontificia per la tutela dei minori la signora Collins. Chiedeva condanne? No, chiedeva che la Chiesa, i suoi uffici, ascoltassero le vittime, entrassero in sintonia con loro. Si creasse cioè un’empatia, e quindi una cultura. La risposta del cardinale Muller, all’epoca Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, fu che questo non rientrava nelle procedure. Erano le diocesi deputate a questo. Non aveva torto. Ma le procedure possono essere modificate quando si tratta di dimostrare che il corpo ecclesiale è uno, fatto di sacerdoti e credenti, di ordinati e laici, di genitori e uffici ecclesiastici. Poi l’aspetto giudiziario seguirà il suo corso, ma intanto c’è una sintonia da ricostruire, una voce da recepire, un malessere da sanare. E visto che molte diocesi non si erano dimostrate all’altezza si chiedeva un “di più” a Roma, alle sue strutture, al di là delle procedure. Per ricostruire la fiducia, sanare, vedere il dolore e ripartire insieme.
Purtroppo questo approccio, questo desiderio, viene sovente letto come un approccio che presta il fianco a chi vuole comunque gettare discredito, ingigantire, criminalizzare. Tendenza che c’è, ma che proprio questo approccio renderebbe, a mio avviso, più difficile. E invece un riflesso “relativista” si è notato in alcuni altri commenti sulla vicenda di Ratisbona. “Non erano tanti casi quanti si è detto”, “si è ingigantito”. I critici in malafede esistono, certo, ma è preferibile dire, a mio avviso, “l’inchiesta è ecclesiale, diocesana, e siccome la diocesi l’ha voluta nessuno può togliergliela. Perché a chi arreca scandalo a uno solo di questi piccoli…”