IL TACCUINO DEL MARZIANO

Riccardo Fedriga

Paura e post-profezie

 

 

Nel modo in cui l’uomo fa esperienza del tempo in cui vive, coesistono paure ancestrali e culturali; quest’ultime si modificano in relazione al contesto storico, sociale e politico costituendo, in generale, una sublimazione delle paure originarie di origine naturale. Da sempre si è tentato di tenere sotto controllo queste passioni, mettendole in scena e rendendole, per così dire, passioni sociali. L’oggettivazione delle paure avviene attraverso una proiezione esterna, condivisa e pubblica, che ne esorcizza il potere paralizzante. Essa può essere di natura simbolica, mitologica, una lettura pubblica, la sanzione di un patto, una rappresentazione teatrale o cinematografica, come ha mostrato in un recente saggio Fabio Ciracì (Metropolis, apparato del Novecento. La distopia come oggettivazione delle paure urbane, Hermes, 2018), nei soggetti di film celebri come Metropolis di Fritz Lang.

Altri esempi possono ritrovarsi nel pionieristico cortometraggio La Jetée (di Chris Marker, 1962 ) o in Blade Runner e Minority Report (tratti dal genio narrativo di Philip K. Dick); nei sogni condivisi o violati, e nei livelli di coscienza dal sapore neoplatonico in cui articola la trama di Inception (2010, Christopher Nolan) sino a graphic novels come la Trilogia di Nikopol (in particolare Freddo equatore) di Bilal e All You need is Kill, magistralmente disegnata da Yoshitoshi Abe; oppure nelle meno nobili, quanto avvincenti, estensioni seriali di romanzi dispensate da piattaforme come Netflix a Amazon Prime Video, come The man in the High Castle (sempre da Dick) o The Handmaid’s tale (il cui romanzo, Il racconto dell’ancella è pubblicato in Italia da Salani) di Margaret Atwood), sino ovviamente a The Mirror, il cui titolo è già di per sé emblematico di una oggettivazione che quasi possiamo toccare con mano, tanto ci è prossima.

Il tema è tutt’altro che triviale e la sua storia ha un’origine antica e una storia esemplare, se si pensa che vi rientrano quelle che, per noi, sono le più inviolabili evocazioni del sacro, come nel caso della personificazione di Dio attraverso l’oggettivazione dei suoi attributi. Si pensi, per fare un altro esempio, all’Onnipotenza, la quale, nelle religioni del Libro, è l’attributo divino che contrasta la nostra paura di una finitudine impensabile, altrimenti non oggettivabile. Non a caso l’Onnipotenza è definita da Borges, ne L’Aleph, lo “scandalo della ragione”. Anche la scrittura fa la sua parte, e nei libri si cerca di esorcizzare la paura grazie a immagini retoriche, come metafore e allegorie. Dovendo scegliere tra le migliaia di esempi che la letteratura ci ha consegnato, emblematico è il caso della Consolatio Philosophiae e della personificazione della filosofia che cura la malattia (letargia) di cui soffre Severino Boezio, condannato a morte nella torre di Pavia.

Oggi, tuttavia, a questo bisogno ancestrale sembra aggiungersi qualcosa di più: assistiamo infatti al tentativo di esorcizzare la paura proprio tramite la distanza grazie alla quale la essa stessa viene oggettivata. Perché sia esorcizzata, non basta cioè che la paura sia esternalizzata rispetto al soggetto che ne fa esperienza: le sue oggettivazioni devono essere registrate e così rientrare entro parametri di osservazione critica e di analisi. Il web e le piattaforme ne sono la prova e la pietra di paragone. In particolare, la loro analisi permette di svelare quanto l’oggettivazione, per esempio, della paura del nuovo, dell’altro o del diverso, abbiano a che fare con la trasformazione dell’esperienza del tempo che, quotidianamente, l’immersione nella civiltà digitale ci impone.

Sembra infatti farsi sempre più strada una concezione del tempo del tutto refrattaria a ogni relazione che preveda sia una prospettiva storica con cui guardiamo al passato, sia una apertura indeterminata su quanto avverrà, appiattendo ogni distanza  temporale su un presente irreversibile. Esso è esperito come una lista di registrazioni ben riassumibili nella ripresa della celebre formula, con cui sempre Boezio descrive l’onnipresenza temporale: tota simul. Chissà se i Sessantottini che affidavano le loro rivendicazioni di vivere “tutto e subito” erano consapevoli del carattere profetico e indelebile di quelle parole scritte sui muri con le bombolette di uno spray che a tutto, appunto, aspirava, tranne che all’eternità.

Sia come sia, la nostra memoria sociale, al pari di quella storica, sembra non riuscire più a filtrare nel passato l’infinità delle cose che accadono nel presente e a farsi carico, così, di ciò che ancora non sappiamo e che forse non vorremo. Di questo indebolimento del filtro della memoria siamo talvolta colpevoli, indifferenti testimoni. E non solo, purtroppo, per quanto concerne le trasformazioni della nostra vita civile, le quali, se non avvelenassero pesi e contrappesi del sistema democratico, sarebbero misere e grottesche, ma anche per quanto riguarda la direzione e l’evoluzione della civiltà, sino a lambire la nostra specie, per come l’abbiamo sinora conosciuta.

Che dire infatti se il filtro della memoria non agisce mettendo in prospettiva la distanza tra noi e tipi di storia diversi? Accade che si entra in un rapporto ancorato a uno stato  in cui, come nella biblica valle di Giosafat (Gioele, 3, 2 e 3,12), il tempo è del tutto passato, compiuto e il futuro è tale solo in quanto presente e presuppone che sia concluso il processo di costruzione del valore e dello status che attribuiamo alle cose reali. Con le sue registrazioni digitali, il web, l’archivio degli archivi non solo presuppone ma, per essere tale, richiede proprio che il processo di costruzione del valore sia concluso una volta per tutte, e che ciò avvenga nel momento della registrazione delle iscrizioni sul web. Anzi, più la registrazione dei dati è fissata su snodi irreversibili, più si esorcizza la paura.

Sì, perché, per quanto in modo speculare al nostro, il regime temporale delle stringhe registrate sul web, mostra anch’esso i segni di quel sentimento antropologicamente costitutivo che è la paura. Anche la metafisica del tempo presente, il tempo del tutto e subito, è infatti un processo di oggettivazione, digitale ma non per questo irreale, della paura. Ciò avviene quando si contrabbanda la rigida irreversibilità dei dati per una rassicurante e condivisa stabilità, psicologica, sociale, politica o finanziaria che sia. L’ansia si specchia qui davvero sul fondo delle nostre coscienze, oggettivandosi in una fissità senza via di scampo tra registrazioni che, in un modo per noi naturalmente impensabile, stanno prendendo il posto di quelle esperienze, scandite nel tempo e contingenti, che la realtà ci ha sempre richiesto.

Le conseguenze di questa trasformazione sono molte. Per esempio, si assiste al baratto di una concezione della libertà, intesa come capacità di agire diversamente rispetto a un dato stato di cose, con la sublimazione al nostro esterno – per quanto ben dissimulata dal fatto di essere iscritta all’interno delle presunte sfere dello spazio digitale – di due specie di paura. Una è quella della cancellazione, dell’oblio. Essa è oggettivata in liste e archivi di ogni genere. L’altra paura è quella dell’incertezza, la cui presenza magmatica emerge proprio dal proliferare incontrollato e bulimico delle registrazioni. Se in passato ci rassicurava il fatto che gli accadimenti non si sarebbero necessariamente trasferiti sul futuro, oggi a rassicurare sembra proprio essere l’irreversibile e necessario trasferimento di una immensa mole di dati circa quanto è avvenuto su ciò che avverrà.

Si tratta di un processo che assomiglia a profezia digitale e che merita una ulteriore riflessione. Nella Bibbia si legge degli abitanti della città assira di Ninive, i quali non solo erano particolarmente feroci e spietati nei confronti degli altri popoli, ma se ne vantavano anche, celebrando le proprie atrocità nelle loro iscrizioni. Questo irritò l’Onnipotente, che si manifestò una prima volta con le parole di Giona. Questi profetizzò che, qualora i suoi regnanti non si fossero ravveduti, la sanguinaria Ninive sarebbe stata distrutta. Per qualche tempo, circa venti anni, gli Assiri sembrarono ascoltare quelle parole. Poi, immemori della possibilità che era stata suggerita e consegnata alla loro responsabilità, essi ripresero a comportarsi come prima, arrivando a conquistare Israele. L’Onnipotente cambiò allora atteggiamento e decise di rivelarsi attraverso il profeta Naum e le parole del suo “canto di morte”. La compassione e l’apertura garantita dai tempi e dai modi verbali della profezia di Giona, si mutò in un giudizio e nell’annuncio della distruzione della città. Vent’anni dopo, Ninive venne attaccata e distrutta in modo tale che non ne rimase che un vago ricordo. Nell’avvertimento di Giona, la misericordia di Dio consiglia e tranquillizza circa il futuro, consegnando, tuttavia, agli uomini la responsabilità presente del ravvedimento. Nel canto del profeta Naum, invece, la maestà dell’Onnipotente dichiara all’indicativo il suo irreversibile giudizio sulla città, chiudendo il suo tempo e addirittura cancellandone le tracce.

Allontaniamoci per un istante dagli aspetti apocalittici e concentriamoci sul senso attuale che rivestono oggi le due profezie. Rispetto a quella di Giona, le previsioni che orientano i consensi e i comportamenti sul web somigliano talvolta al canto di Naum: una dichiarazione di fatto, più che una profezia aperta, che trasferisce un giudizio su un futuro già previsto e ormai dato una volta per tutte. Quella di Naum è una post-profezia: un modo di parlare della nostra esperienza che assume, sul web, le sembianze della tranquillità, tanto nei confronti della paura della cancellazione quanto dell’incertezza sull’avvenire. La paura dell’incertezza non è esorcizzata con un patto di responsabilità ma con una chiusura del tempo spacciata per un sentimento di sicurezza. Il che spiega molte cose, dalle più becere alle più sofisticate.

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