LA BELLA CONFUSIONE

Oscar Iarussi

Giornalista e saggista.

Paul Newman dieci anni fa

«Sarebbe grande come Marlon Brando, se solo fosse meno bello». Così parlò Lee Strasberg. Il giudizio del guru dell’«Actor’s Studio», leggendaria scuola di recitazione per mostri sacri in erba sulla 44.ma strada di New York, riguardava Mr Paul Newman, scomparso dieci anni fa. Quando si dice la sfiga… Nascere il 26 gennaio 1925 a Cleveland, Ohio, da padre ebreo tedesco e madre cattolica ungherese, con gli occhi d’un blu dipinto nel blu, lo sguardo destinato a diventare il più abbacinante di Hollywood. Sebbene Newman fosse daltonico, il che gli impedì di combattere – come avrebbe voluto – la Seconda guerra mondiale sulle navi (marinaio sì, ma in ufficio).

Un’azzurra lontananza, Paul. Presto fece strage di cuori, assoggettando in tutto il mondo schiere di fanciulle, oggi nonne, per le quali il 26 settembre 2008 giunse la conferma che non muoiono solo i mariti (poco male), ma anche gli dei. La notizia della scomparsa sulle prime fu «presunta», nel gergo freddo delle agenzie di stampa. Giungeva, infatti, da Limestre, frazione del comune di San Marcello Pistoiese sull’appennino toscano, donde l’imprenditore Vincenzo Manes, presidente della fondazione «Dynamo Camp» e negli anni seguenti consigliere pro-bono del presidente del Consiglio Renzi per il Terzo settore, che fa parte della rete di solidarietà fondata da Newman, disse di aver ricevuto una mail luttuosa dagli Stati Uniti. Succede, sei Paul Newman e quando muori lo sanno prima a Limestre che a Los Angeles… È quasi una metafora dello straordinario livellamento che il cinema americano ha operato nel secolo scorso, rendendoci tutti cittadini con passaporto hollywoodiano.

Di Newman, lo stesso Strasberg un’altra volta disse: «Aveva il talento, però faceva troppo spesso affidamento sul suo sex appeal e rimaneva così in superficie davanti ai ruoli più impegnativi». Sentite Paul, tra l’altro laureato in Scienze, che cosa replicò al suo maestro: «Recitare è come calarsi i pantaloni: resti in bella mostra davanti a tutti. Quasi tutto quello che ho imparato lo devo all’Actor’s Studio, ma ciò non toglie che recitare non è un processo creativo, semmai un processo interpretativo. In definitiva, essere un attore vuole dire restare bambini e io non ho cominciato per un vero stimolo interiore; volevo solo scappare via dal negozio di articoli sportivi che mi aveva lasciato mio padre».

Ecco una bella parabola americana, ovvero una frase che avrebbero potuto scrivere tanto Mark Twain quanto Jerome David Salinger, che nel Giovane Holden ricordò: «Ora sta a Hollywood, D. B., a sputtanarsi. Se c’è una cosa che odio sono i film. Non me li nominate nemmeno… ». E invece ancora oggi è tutto un nominare i film più o meno famosi di P. N., confinato per decenni nel ruolo del «bello senz’anima». Senz’anima lui, che ha elargito centinaia di milioni di dollari in favore dei bambini malati terminali. E che da elettore democratico s’era impegnato in politica fin dal 1968 a favore del candidato alle presidenziali Eugene McCarthy. Scelta perdente che gli fruttò l’inserimento nella lista dei nemici di Richard Nixon: «Uno dei risultati più prestigiosi della mia carriera – diceva Paul – . Più dei film, più dei premi. Scoprire di essere finito in quella lista significava che stavo facendo qualcosa di giusto».

Quanto ai premi, dopo sette nomination, soltanto nel 1986 vinse un Oscar onorario, e, quasi una beffa, l’anno seguente venne incoronato con la statuetta del migliore protagonista per Il colore dei soldi di Martin Scorsese, interpretato in coppia con il pivello Tom Cruise che gli sarebbe diventato amico quasi quanto lo è sempre stato Robert Redford.

All’indomani del divorzio da Jackie Witte (madre di tre figli e lasciata nel 1958), Newman sposa l’attrice Joanne Woodward, che gli darà altri tre figli e resterà al suo fianco fino all’ultimo (la foto di un tenero bacio della coppia divenne l’icona-manifesto del Festival di Cannes 2013). Nel 1978 un’overdose stroncò Scott, l’unico maschio, ma Newman non ne parlava in pubblico. «Non capisco – amava dire Paul il Monogamo – perché uno dovrebbe andare in giro a cercare hamburger a poco prezzo, quando ha una bella bistecca che lo aspetta a casa». E sì che «le donne volevano letteralmente piovere nel mio letto». Eppure nella vita quotidiana amava il rischio, adorava correre in automobile, e non ha smesso pur non conquistando mai una vittoria (miglior risultato, un secondo posto alla «24 ore» di Le Mans).

Newman aveva sostituito James Dean, scomparso tragicamente, nei due primi ruoli importanti della sua lunga carriera: Rocky Graziano in Lassù qualcuno mi ama e Billy the Kid in Furia selvaggia. Poi, in ordine sparso, i suoi trionfi: La gatta sul tetto che scotta, La lunga estate calda, Lo Spaccone, Butch Cassidy, La stangata. Bandito e gangster, ufficiale e avvocato, campione di boxe e accanito giocatore di biliardo… E in un film già «crepuscolare» che amiamo molto fu Buffalo Bill (regia di Robert Altman, 1976).

Aveva 83 anni e perse la lunga lotta contro il cancro ai polmoni. «La sua morte è stata privata e discreta come tutta la sua vita – dissero le figlie – la vita di un artista umile che non si è mai visto come un “grande”». La frase preferita di Paul Newman era: «È stato un privilegio essere qui». Con il dovuto rispetto per Marlon Brando, il privilegio è stato tutto nostro.

 

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