Un delicatissimo elogio della poesia nella vita quotidiana. O un canto della vita quotidiana come esperienza poetica, nonostante le piccole e «insignificanti» repliche cui ci sottopongono il lavoro e l’amore, anzi, in virtù di quei refrain. Ci voleva il più «europeo» dei cineasti indipendenti Usa, Jim Jarmush, perché un’immaginetta «votiva» di Dante Alighieri fosse custodita nella borsa della colazione di un autista trentenne che si chiama come la città in cui vive, Paterson, nel New Jersey. È un centro relativamente piccolo (150mila abitanti), con una sua storia industriale grazie all’energia prodotta dalle cascate di Passaic: insediamenti tessili (seta) e un’importante fabbrica di armi impiantata da Samuel Colt. Paterson sul finire dell’800 attira anche alcuni anarchici italiani, tra i quali Enrico Malatesta, appena fuggito dal confino a Lampedusa, e Gaetano Bresci che da Paterson muoverà verso l’Italia per il regicidio di Umberto I.
Insomma, poesia e anarchia rimano in Paterson del sessantaquattrenne Jarmush, guardando con ammirazione e commozione all’Italia. D’altronde, uno dei grandi amici del regista è Roberto Benigni che ne interpretò Daunbailò nell’86 e lo iniziò alle terzine dantesche. Ma Paterson è anche un’opera profondamente americana grazie all’afflato lirico, whitmaniano, verso la tradizione dei «poeti estinti» a mo’ di fondamento stesso del Nuovo Mondo (ricordate L’attimo fuggente?). La città in tal senso non è messa affatto male, visto che s’intitola Paterson il poema epico di William Carlos Williams, pubblicato in cinque volumi dal 1946 al 1958. E, al pari di Williams che vi trascorse gran parte della vita, anche Allen Ginsberg, il guru della Beat Generation, crebbe a Paterson, oltretutto città natale del comico Lou Costello evocato a più riprese nel film.
Dunque, il protagonista Adam Driver (presto in Star Wars VIII) lavora da conducente di autobus e vive con l’incantevole e «petrarchesca» Laura, che serba ambizione gastronomiche e canore, interpretata dall’attrice iraniana Golshifteh Farahani (nel 2017 la vedremo in Pirati dei Caraibi – La vendetta di Salazar). Lei lo attende a casa ogni sera insieme al dispettoso bulldog Marvin, gli prepara i cupcake o certe torte immangiabili – si direbbe – farcite con i cavoletti di Bruxelles. Sono felici, sebbene l’intimità tra i due giovani non si spinga oltre i baci e le pudiche carezze. Lui attinge l’energia vitale dalla fonte della tradizione, appunto, sostando ogni giorno a contemplare le cascate. Compone versi nelle pause del tran tran e li trascrive in un «taccuino segreto» (poesie assai belle, frutto della penna di Ron Padgett). La sua costante distrazione, il pensare «interstiziale» alla Barthes, è invero fedeltà al genius loci, ai numi tutelari del luogo.
Il cinema marginale e quasi «catatonico» di Jarmush, in cui l’azione si svincola dalle motivazioni razionali, un cinema zen, assorto eppure non immobile (pensate ai gioielli Ghost Dog e Broken Flowers), trova finalmente in Paterson la sua minuscola capitale. Una capitale senza simboli né bandiere, ma capace egualmente di attrarre «ambasciatori» stranieri, come il poeta giapponese che – dopo un piccolo disastro causato da Marvin – donerà a Paterson un quaderno vuoto.
PATERSON di Jim Jarmush. Interpreti e personaggi principali: Adam Driver (Paterson), Golshifteh Farahani (Laura), Rizwan Manji (Donny). Drammatico, USA, 2016. Durata: 115 minuti
Articolo apparso sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” del 29 dicembre 2016