LA BELLA CONFUSIONE

Oscar Iarussi

Giornalista e saggista.

Benvenuto 014. Fuga

Fuga per la vittoria. Fuga di cervelli. Fughe da fermo. Galline in fuga. Fuga di mezzanotte... La fuga  è un must senza tempo, una parola ricorrente nei titoli di libri, film e giornali. Fuggire corrisponde spesso a una necessità; talora può elevarsi ad arte. La fuga è dolore o inquietudine in movimento. È Furore come nel romanzo di  John Steinbeck sull’esodo dei miserabili durante la Grande Depressione statunitense (che fu più piccola della crisi attuale, pare), appena riproposto da Bompiani nella traduzione di Perroni. Ed è tragedia degli esuli-naufraghi asiatici e africani che da vent’anni si arenano sulle nostre coste.
Da qualche tempo anche gli italiani hanno ripreso a fuggire, dopo le stagioni  di benessere stanziale di un Paese «miracolosamente» rinato dalle macerie del fascismo e della seconda guerra mondiale, in cui l’emigrazione era «solo» interna da Sud verso Nord. Invece i ragazzi, e non solo loro, sempre più di frequente fuggono o coltivano sogni di fuga dal declino nazionale, dal malessere «senile» che pare attagliarsi allo Stivale, dalla depressione economica e culturale che ci ghermisce ormai da alcuni lustri.

Fuggono i laureati e i ricercatori che non troveranno spazio nelle università depauperate dai tagli. Fuggono gli operai specializzati dalle lande de-industrializzate, dalle Apocalypse town italiche, per dirla con il titolo di un reportage americano di Alessandro Coppola per i tipi di Laterza. Fuggono quelli senza né arte né parte, pur sempre in cerca dell’una o dell’altra nelle nazioni che non mortificano chi corteggia il domani, ovvero quanti semplicemente «ci provano». L’Europa stessa, tanto vituperata, grazie a programmi quali l’Erasmus (a sua volta periclitante) ha instillato il gusto della fuga in schiere di ventenni, grazie al cielo. Si tratta di trasferimenti temporanei e programmati a fini didattici, eppure una fuga è una fuga, lascia il segno/sogno, e nessuno ha mai capito bene come mai Ulisse non si fosse lasciato irretire dalle sirene. A proposito di Itaca, la ricchezza e la sapienza della fuga si annidano giusto nel doppio movimento fuga/ritorno e nel dilemma che esso sempre suscita. Chi fugge senza nostalgia non è un autentico fuggitivo, al pari di chi resta senza vagheggiare una chimera, una fatamorgana, un altrove.

Sarebbe abbastanza facile compilare l’elenco delle cose sgradevoli alle quali ripromettersi di sfuggire nel 2014. Chi più ne ricorda del 2013 e precedenti, più ne metta. Un esempio? Non se ne può più delle iperboli, dell’enfasi, della mancanza di pudore che ammantano molti passaggi della vita pubblica, qualsivoglia dichiarazione pronta a essere smentita dall’ipocrisia o nei fatti. Raccontare che «tutto va ben, madama la marchesa», mentre il Palazzo va in fiamme, istiga alla fuga persino i sedentari per vocazione. Se c’è un problema, l’unico modo di provare a risolverlo è segnalarne l’esistenza, non certamente investire centinaia di migliaia di euro in quelle particolari forme di omissione e di esorcismo che i politici chiamano «comunicazione».

Tuttavia vi sono anche fughe da ciò che va bene e fughe immotivate. Magari sono soltanto viaggi o, parafrasando Lucio Battisti, «tu chiamale se vuoi evasioni». Lo ricordò da par suo Massimo Troisi, scomparso vent’anni fa, in una celebre scena di Ricomincio da tre: «Emigrante?» – «No, ccà pare ca ‘o napulitano nun pò viaggià, pò sulamente emigrà».
E vi sono fughe senza ritorno, defezioni e diserzioni con lo splendore del deserto nell’etimo latino (deserere). Fughe dalle parole e dagli articoli scritti a Capodanno. Fughe nel silenzio e, per cominciare, fughe da tavola. Troppe cartellate uccidono.

(Articolo apparso sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” del 2 gennaio 2014)

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