Beh, è già tanto che il Papa non abbia intervistato Eugenio Scalfari! D’altronde, è stato il pontefice argentino a telefonare all’anziano giornalista e a invitarlo nella sua residenza di Santa Marta per un colloquio il cui resoconto è apparso ieri nelle pagine della «Repubblica» con il titolo «Così cambierò la Chiesa». I due si sono incontrati dopo essersi scambiati delle lettere estive. L’epistolario è stato anch’esso pubblicato dal quotidiano romano diretto da Ezio Mauro, di cui Scalfari è il fondatore e resta, come dire?, il guru o la «guida spirituale». C’è stata poi, pochi giorni fa, l’intervista concessa da papa Bergoglio a «Civiltà Cattolica» – la rivista dei «suoi» Gesuiti – che ha fatto scalpore per le aperture ai gay e ai divorziati. Né mancheranno – pare di intendere – altre puntate di Scalfari oltre il Tevere improvvisamente «più stretto», per rovesciare la metafora storica di Giovanni Spadolini senza tuttavia tornare a confondere le sorti del Vaticano con quelle dello Stato italiano.
Insomma, il Papa venuto dalla «fine del mondo», in poco più di sette mesi dall’avvento al soglio petrino, sta concretando una rivoluzione fatta di pensieri, parole e opere. Una «rivoluzione» che assume il senso letterale – e il senno – di un corpo in movimento intorno a un altro corpo: la Chiesa intorno al mondo. Nella chiacchierata con Scalfari, che è oltretutto una lezione di nitore giornalistico, il Papa sostiene che la Chiesa deve ripartire dal Concilio Vaticano II e aprirsi alla cultura moderna. Fra i vari passaggi di Francesco, colpiscono quelli dedicati al bisogno di proiettarsi nel futuro di cui oggi i più giovani sono orfani; le osservazioni al limite del paradosso sul narcisismo dei Capi della Chiesa e sul «Vaticano-centrismo» della Santa Sede; l’ironico accenno al personale anticlericalismo quando è al cospetto dei clericali…
Il Papa dice chiaramente che non pensa di convertire l’agnostico Scalfari: «Il proselitismo? È una solenne sciocchezza. Bisogna conoscersi e ascoltarsi». E alla domanda «Lei si sente toccato dalla grazia?», risponde in maniera celestiale e disarmante: «Questo non può saperlo nessuno. La grazia non fa parte della coscienza, è la quantità di luce che abbiamo nell’anima, non di sapienza né di ragione. Anche lei, a sua insaputa, potrebbe essere toccato dalla grazia». È un’affermazione altresì fortissima, perché «alleggerisce» chi non crede di un inutile senso di colpa, mentre «restituisce» l’alone luminoso della grazia agli ultimi, ai semplici, agli incoscienti. Non meno importante di quello speculativo è il coté sociale del colloquio: «I più gravi dei mali che affliggono il mondo sono la disoccupazione dei giovani e la solitudine in cui vengono lasciati i vecchi… Il liberismo selvaggio rende i forti più forti, i deboli più deboli e gli esclusi più esclusi. Servono regole. Se necessario, lo Stato corregga le disuguaglianze più intollerabili».
Dopo la «dimissione» di Benedetto XVI, il papa teologo che a sua volta ha scritto di recente una lettera al matematico Odifreddi per confutarne l’ateismo teorico, si comincia ora a cogliere la portata epocale delle trasformazioni in atto nella Chiesa, ben di là dall’aneddotica sulla giovialità di Francesco. È la Chiesa che solo un anno fa ha celebrato il cinquantenario dell’apertura del Concilio Vaticano II voluto da Giovanni XXIII (11 ottobre 1962), alle cui sessioni partecipò il giovane Ratzinger da consulente del cardinale Joseph Frings e quindi come perito conciliare. Papa Ratzinger ha scritto in proposito: «Il cristianesimo, che aveva costruito e plasmato il mondo occidentale, sembrava perdere sempre più la sua forza efficace. La percezione di questa perdita del presente da parte del cristianesimo e del compito che ne conseguiva era ben riassunta dalla parola “aggiornamento”».
Ma già Giovanni Paolo II aveva specificato che l’elemento distintivo dell’assise di mezzo secolo orsono non fu affatto la controversia politica tra «progressisti» e «conservatori», come vuole una vulgata. Per la Chiesa conciliare, glossò Benedetto XVI, il contrario di «conservatore» non è «progressista», bensì «missionario»: «In questa antitesi si trova fondamentalmente il segno preciso di ciò che si intende e non si intende per apertura conciliare al mondo». Una missione. «Comunicare» – verbo dall’etimo eucaristico – incarna l’ardore e il sacrificio di una teologia contemporanea tra Vangelo e società.
È la teologia non «della liberazione», ma pur sempre liberatoria che, sgorgando dalla «fine del mondo», esercita un fascino e – chissà – una presa sull’Europa stanca di tutto e in primis di se stessa (per non parlare dell’Italia ipnotizzata nel bestiario del Caimano e altri animali). C’è chi teme – come l’«ateo devoto» Giuliano Ferrara – che Bergoglio difetti di orgoglio, ovvero che cedere troppo al «secolo», al mondo, al relativismo, sia un errore; quello evitato da Wojtyla e da Ratzinger.
Si vedrà. I tempi della Chiesa sono spesso ineffabili al pari dei suoi passi: lentissimi o improvvisi. Di sicuro in Francesco v’è la scelta di assumere «la vita pericolosa e miserabile della maggior parte» di cui scrisse Albert Camus: «Prenderò la Chiesa sul serio quando i suoi capi parleranno la lingua di tutti». Sui giornali e non solo, così parla Francesco.
(articolo pubblicato sulla “Gazzetta del Mezzogiorno”, 2 ottobre 2013)