Mentre la polizia a Taksim e altrove nel Paese fa ‘il suo lavoro’, dopo una settimana di alti e bassi, di tensioni, apparenti distensioni e prove di dialogo tra governo e manifestanti, e con un domani davanti a dir poco incerto, proviamo ancora a ragionare sul significato di quel che accade in Turchia. Amici, conoscenti e perfetti sconosciuti – a cui esprimiamo la nostra ‘solidarietà tra estranei’ – respirano gas; noi proviamo a offrire la riflessione come ben povero contributo alla loro lotta.
In quanto avviene in Turchia in questi giorni ci sono due piani, ovviamente dipendenti l’uno dall’altro, ma da non confondere. Il piano politico e quello sociale.
Sul piano politico, in settimana sono diventate ancora più evidenti le tensioni all’interno del partito al governo (AKP). Da un lato Erdoğan, il cui linguaggio è più irritante e violento dei gas sparati dalla polizia, e la cui condotta tra l’autocratico e il demogogico sembra essere uno dei motivi principali della protesta e uno degli impedimenti più formidabili alla sua soluzione; dall’altro il Presidente Gül e alcuni membri del governo, a partire dal vicepresidente Bulent Arinç, vicini alle posizioni di Fethüllah Gülen, francamente conservatrici in materia di stili di vita (e che c’è di illegittimo?) ma in questa situazione come in altri passaggi critici della storia turca di questi ultimi anni aperte al dialogo, al pluralismo, e al rispetto dei diritti. Le tensioni tra questi due fronti non sono ancora diventate scontro aperto, sono sotto traccia, e non è dato (da qui, o a chi scrive) capire se, come e quando si risolveranno.
Il modo in cui Erdoğan chiude sistematicamente le porte ad una soluzione dialogica della crisi – magari un momento dopo averla blandita – facendo schegge del delicato dialogo da altri tessuto, sembra avvalorare quella politologia – che da un decennio si esercita nell’analisi dell’AKP e della sua leadership – che descrive il partito al governo come un ‘one man party’, un caso esemplare di personalizzazione della politica e leadership carismatica – in questo caso sempre più scopertamente autoritaria – postmoderna. Spiegazione semplice, chiara, con il pregio di ridurre la complessità della realtà, ma viziata da psicologismo. Una lettura sociologica, per qualcuno forse ‘sociologista’, non vede mai agitarsi nel palcoscenico della storia grandi personalità, se non investite dall’opinione pubblica di uno speciale carisma, di una forza che deriva dal loro essere espressione della forza di una parte almeno della società stessa. Le ‘grandi personalità della storia’ condensano e stenografano umori sociali, sono simboli collettivi. Se così stanno le cose, il problema non è Erdoğan, o non solo Erdoğan, ma quel che egli esprime. In forma arrogante, egli rivendica il diritto-dovere di esprimere il 50% dell’opinione pubblica che lo ha votato, trattando il restante 50% come terroristi. In realtà, esistono fondati motivi per pensare che dentro quel 50% Erdoğan stia perdendo consensi non solo tra gli ormai ‘vecchi’ alleati liberali e democratici di sinistra, ma anche tra molti conservatori che si riconoscono di più nelle posizioni del Presidente Gül e negli appelli di Fethüllah Gülen. Il punto è che Erdoğan sembra diventare sempre più espressione e simbolo non della rottura e discontinuità con la modernità senza democrazia della Repubblica kemalista, ma la sua reincarnazione, la vittoria silenziosa di quegli apparati che da una democrazia pluralista e post-kemalista avrebbero tutto da perdere.
Poi c’è la piazza, il piano sociale. Per Erdoğan, la piazza – se non quella ‘attivata’ dal suo stesso partito – è evidentemente minorenne, incapace di autonomia: gestita e ingannata ora da gruppi terroristi ora da lobby internazionali nemiche della pace nazionale (la vecchia retorica kemalista), essa va trattata con il paternalismo di chi invita le madri a tenere a casa figli scapestrati e inconsapevoli di essere giocati da poteri più grandi di loro, prima che arrivino i blindati della polizia. Va detto e ribadito: esistono gruppi anche violenti tra i manifestanti di Taksim, gruppi che attraverso il momento sperano di resuscitare l’unica logica che consente loro di avere una qualche visibilità, ossia quella della violenza, essendo per il resto del tutto marginali e confinati mentalmente nell’inferno della Turchia anni Settanta. Ma ridurre la piazza a questi ultimi o ad attori minorenni e inconsapevoli è operazione disonesta e contraria a ogni evidenza. Le madri che all’appello di Erdoğan di far stare i figli in casa rispondono scendendo in piazza e formando una catena umana al fianco di questi ultimi; gli avvocati che difendono i loro colleghi arrestati perché tutelano i diritti dei manifestanti a loro volta arrestati nei giorni passati; quartieri interi che mettono in scena colorite ‘pentolate’ serali: queste sono solo alcune delle ultime risposte date in settimana a Erdoğan da una società civile la cui evoluzione è l’unico motivo di speranza e ottimismo.
Questo è il punto. Dopo una notte, quella alle spalle nel momento in cui scrivo, di ennesimo brutale intervento della polizia e di guerriglia per le strade intorno a Taksim, è difficile esse ottimisti. Sembra la fine del ‘modello turco’, fine di cui in molti stanno scrivendo in questi giorni. E se invece Taksim fosse il contrario, il segno di quanto di buono la Turchia ha da dire oggi? Il segno di una società civile che sta interiorizzando la democrazia come unico orizzonte, di una società civile che fa del cosmopolitismo il suo vanto? Una società civile che rivendica diritti e memorie, presente, futuro e passato; non un cosmopolitismo astratto e vuoto, non una democrazia procedurale, non dei diritti ciechi alle differenze. Non una società civile che pensa che la maggioranza ha il diritto di far quel che crede se legittimata dal voto, né che pensa che una minoranza illuminata ha il diritto di mettere sotto tutela la maggioranza; non una società civile che crede che multiculturalismo sia cantare ognuno la propria canzone, ma che sia piuttosto intonare la canzone del vicino, come amava dire Hrant Dink. Questo è il punto: Taksim è il modello turco contro le intenzioni di Erdoğan e degli apparati, e lo è anche perché è il risultato di dieci anni di governo AKP che si rivoltano contro il suo ‘leader’, dieci anni in cui tra mille contraddizioni in Turchia si sono scongelate memorie, culture, identità, religiose ed etniche, che oggi sono in piazza portando tutte i loro colori, riti, linguaggi, e rivendicando ciascuna il diritto di farlo per se stessa e le altre; contro l’omogeneità kemalista, contro le tutele militari, contro Erdoğan, e contro – quando necessario – la cecità europea e occidentale, che vede – spesso con soddisfazione – nell’autoritarismo finalmente alla luce del sole dell’ultimo sultano il fallimento, inevitabile e da lungo tempo preconizzato, del modello turco.
Il problema, tra la piazza e la politica, è chiaramente la politica. Taksim rappresenterà un passo ulteriore nel processo di democratizzazione della Turchia – a cui è legata anche quella dell’Europa, che piaccia o no – se la politica saprà offrire una sponda alla piazza, se saprà rappresentarne le istanze. Ma quel che manca, in Turchia come altrove, è la politica. Quella governativa, in Turchia, si esprime ultimamente con i gas e gli idranti, mentre quella di opposizione e di sinistra, in Turchia come altrove, è incapace di andare al di là dei confini netti entro cui è abituata a muoversi. Taksim sta sperimentando nuovi confini tra religioso e secolare, tra aleviti e sunniti, tra anticapitalisti di sinistra e anticapitalisti musulmani, tra ambientalisti di ogni sorta, tra generazioni e generi; la piazza cuce, la politica separa e contrappone. Il modello turco è Taksim, e se la politica saprà farsene almeno in parte interprete, il modello turco avrà ancora molto da dire.