Fatti.
Dieci anni fa, il 23 luglio, moriva lo scrittore ebreo-americano Chaim Potok. Conosciuto soprattutto per titoli come Danny l’eletto, Il mio nome è Asher Lev, Il dono di Asher Lev, La scelta di Reuven, L’arpa di Davita, è stato una delle grandi voci della letteratura americana del secondo dopo guerra. Pochi giorni fa (il 20 per l’esattezza) Avvenire ha pubblicato lo stralcio di un’intervista che mi ha prepotentemente rammentato i motivi per i quali amo così tanto le pagine di Potok, quelle celebri sopra richiamate così come molte altre. “Tutti cresciamo in realtà particolari: una casa, una famiglia, un clan, una piccola città, un quartiere. Duecento anni fa la maggior parte delle persone non era cosciente di nessuna altra realtà rispetto a quella in cui era cresciuta. Ma oggi, in maniera molto veloce, siamo consapevoli di molte altre prospettive sulla condizione umana e ciò avviene a causa dei mass media e della velocità con cui la gente viaggia nel mondo”. In queste poche righe ci sono le storie di Danny, Reuven, Asher, Davita, i tanti personaggi che i lettori di Potok hanno imparato ad amare profondamente; c’è un trattato di sociologia, con l’incontro/scontro tra tradizione e modernità, l’accelerazione della modernità verso l’iper-modernità o come la si voglia chiamare; ci sono i crinali lungo i quali Potok faceva muovere le vite dei suoi personaggi: il crinale tra mondi che si nutrono di tradizione, significati spessi, mondi ricchi e gretti, mondi brulicanti di umanità fuori dal tempo, con i suoi pregi e difetti, da un lato, e il mondo della vita moderna, con i suoi ritmi, il suo cinismo, il suo slancio verso il futuro; il crinale tra l’appartenenza ad una tradizione religiosa, al mondo yiddish dei Chassidim, da un lato, e il mondo secolare e laico della scienza, dei libri proibiti, dall’altro. Vite e personaggi divisi, a metà tra appartenenza e secessione. Potok faceva muovere le sue storie tra il cuore della tradizione rabbinica e il cuore dell’umanesimo laico, ed è proprio il dramma della tensione tra questo confronto che caratterizza il peculiare pathos dei suoi romanzi. Proprio questo distingue i personaggi di Potok da quelli di Philip Roth o di Saul Bellow, ed era lo stesso Potok a sottolinearlo nell’intervista richiamata: “non so come Roth potrebbe parlare con uno degli ebrei dei miei romanzi se un giorno lo incontrasse per strada, al di là di qualche espressione in yiddish; Bellow saprebbe parlare con loro su qualcosa di profondo perché si era formato culturalmente come ebreo (…); ma si sarebbe fermato lì, non sarebbe stato capace di passare dalla letteratura yiddish a quella rabbinica (…)”. Di questo siamo debitori a Chaim Potok: storie di personaggi divisi tra la fuga da un mondo al quale non possono più appartenere e l’identificazione con il mondo secolare e la modernità, da un lato, e l’impossibilità di rimuovere del tutto il senso della perdita che la rottura con una comunità di fede comporta, dall’altro. Ma non è proprio questa la realtà di un mondo, quello che viviamo, in cui si muovono donne e uomini “fully modern and fully religious”, secondo l’espressione della sociologa delle religioni Grace Davie? Violinisti sui tetti di Crown Heights, Brooklyn, come sulle sponde del Tevere, Roma.