LA BELLA CONFUSIONE

Oscar Iarussi

Giornalista e saggista.

Oltre il tramonto, lo sguardo largo dell’Europa. Al cinema e non solo

Il cinema europeo? Parlarne oggi è più arduo che nel dopoguerra dei Renoir, Rossellini, Visconti, Clément, Reed, De Sica all’opera sotto il segno di un nuovo realismo, sebbene lungo strade talora distanti. Grazie a quei maestri e ai loro allievi, l’Europa fu feconda a dispetto delle macerie e fiera dinanzi all’amico-nemico americano. E sì che stava cominciando l’invasione degli ultracorpi hollywoodiani pronti a “colonizzarci il subconscio”, per dirla con Wenders. Oggi che cosa mai potrebbe definirci europei? Non bastano il mercato comune e la moneta unica. Così le urne per il parlamento brussellese pullulano di consensi elettorali ai cosiddetti “euroscettici”, mentre dall’Ungheria alla Francia si moltiplicano i focolai di neofascismo, di antisemitismo, di xenofobia e di egoismo. L’illusione regressiva delle “piccole patrie”, dove si urla o si sussurra “ciascuno a casa sua”, vale da improbabile argine contro la furia faustiana della globalizzazione. Come se in Goethe l’idilliaco mondo di Filemone e Bauci non fosse comunque destinato a soccombere. D’altro canto, son maturi e guasti i frutti della democrazia equiparata al populismo “televisivo”. Tanto meno si intravede una politica estera europea degna di dirsi tale, come dimostrano i silenzi e le viltà dei mesi scorsi sulla carneficina in Siria, la crisi ucraina e il riaccendersi del conflitto israelo-palestinese.

V’è almeno un sostrato culturale comune? “I parafulmini devono essere saldamente infissi nel terreno. Anche le idee più astratte e speculative devono essere ancorate nella realtà, nella materia delle cose. Che dire allora dell’idea di Europa?”, si chiede George Steiner in Una certa idea di Europa, tradotto in italiano da Garzanti. Lo scrittore e comparatista statunitense, nato a Parigi da genitori ebrei austriaci, offre un ventaglio di risposte. L’Europa sta nei suoi caffè colmi di gente e di parole, nelle strade e nelle piazze a misura di passeggiata, nella “sovranità del ricordo” grazie alle mille targhe sui muri e nella doppia eredità di Atene e Gerusalemme. Inoltre, scrive Steiner, c’è “una consapevolezza escatologica che possiamo trovare solo nella coscienza europea. È come se l’Europa, a differenza di altre civiltà, avesse intuito di essere destinata al collasso, sotto il peso paradossale dei propri trionfi e dell’insuperata ricchezza e complessità della propria storia”. E aggiunge: “Non c’è dubbio: l’Europa morirà se non combatte per difendere le sue lingue, le sue tradizioni locali, le sue autonomie sociali. Perirà se dimentica che ‘Dio si trova nei dettagli’”. Una perorazione che nell’intellettuale tedesco Hans Magnus Enzensberger assume toni aspri e ironici verso Il mostro buono di Bruxelles, come s’intitola un suo recente pamphlet tradotto da Einaudi, un efficace atto d’accusa alla burocrazia che legifera persino sulla curvatura media dei cetrioli.

Eccoci. Il gusto del dettaglio, lo sguardo rivolto gli angoli in ombra, la visione delle differenze sono fra le qualità proprie del cinema europeo. “Gli specchi dovrebbero riflettere un po’ prima di riflettere” annotava il paradossale Jean Cocteau e l’invito è valido ancora oggi. L’Europa appare smarrita, opaca, depressa, ma a ben riflettere… Vero, non è abbastanza grande nel mondo globale e dopo Wojtyla è orfana anche di una “sua” leadership nella Chiesa cattolica. Eppure la debolezza è la sua forza. Solo un raffinato teologo tedesco quale Ratzinger poteva concepire l’inedito paradigma – sette secoli dopo Celestino V – di un papa dimissionario rispetto alla presunta onnipotenza del ruolo. E nel pontificato di Bergoglio è ancora l’Europa dello spirito francescano a riprendere vigore: una missione “fino alla fine del mondo” donde proviene il vescovo di Roma.

E’ questa l’autentica “eccezione culturale” che il cinema europeo può praticare sullo schermo, ben più che sul versante mercantile e normativo. Il tentativo di mettere a fuoco una cifra europea, un modus operandi, una preziosa tutela delle diversità non in chiave campanilistica rinviano alla coscienza della fine di cui scrive Steiner. Secondo Vaclav Havel, drammaturgo e dissidente che divenne presidente a Praga, il termine “Europa” deriva dall’accado erebu, “calar del sole”, contrapposto al levarsi, asu, proprio dell’Asia. Nella mitologia greca Europa è una giovane orientale, una principessa rapita da Zeus sulla spiaggia di Sidone e condotta a Creta sui flutti del Mediterraneo in tempesta. Insomma l’Europa non arrivò mai sul continente e lì è rimasta, sospesa fra origini e destino. Lì, marina e celeste almeno quanto è tellurica. Europa mediana tra Ovest ed Est, tra Sud e Nord. Non a caso, nel cinema, le esperienze più interessanti degli ultimi lustri sono tutte di frontiera: la Finlandia di Kaurismaki e Pirjo Honkasalo, il Portogallo di De Oliveira, la Svezia di Roy Andersson (che col suo “piccione riflessivo” ha poi vinto Venezia 71), la Grecia di Anghelopulos, i Balcani di Paskalievic e Kusturica, la Danimarca di Von Trier, l’Italia “albanese” di Amelio, il Grande silenzio alpino di Philip Groening, la Lituania di Sharunas Bartas che sta Lontano da Dio e dagli uomini. Come Loin è la Francia già berbera di André Téchiné o Loin des hommes sta il corrusco Viggo Mortensen in una delle sorprese di Venezia. Il film è tratto da un racconto di Camus nelle desolate terre dell’Atlante nordafricano, già esplorate in Des Hommes et des Dieux di Xavier Beauvois (altro autore di Venezia 71). Ma europei in tal senso possono dirsi anche l’Iran di Kiarostami e Israele di Amos Gitai.

Sono cineasti, e ve ne sono molti altri, che lavorando sulla nozione di sguardo tendono a rallentare il ritmo delle visioni e riservano una forma di pudore nel filmare, consapevoli di quanto una distanza o la prospettiva sia provvida nell’evitare di farsi ingurgitare nel bric-à-brac della “post-modernità”. Hollywood c’è, Bollywood galoppa, Nollywood si capirà. L’Europa coltiva Slowood, dove è straniero l’unico passaporto valido per tornare a casa. Gli autori interpellati in questo numero della Rivista offrono risposte illuminanti e nel pantheon del cinema europeo trovano posto La battaglia di Algeri di Pontecorvo, Pane e cioccolata di Brusati, Shoah di Lanzmann, Faust di Sokurov e Il profeta di Audiard. Sono esempi del “cinema da lontano” teso a preservare lo stupore. Film assai diversi per tema e per stile, accomunati dalla passione per i margini e le ombre. Alfred Hitchcock, non meno didascalico di Rossellini, diceva che “il cinema è come la vita, meno i tempi morti”. Ma oggi dove sono più i tempi morti nella vita quotidiana? Essi sono un’imperfezione umanistica appena tollerata nella fitta trama delle produzioni e delle relazioni sociali improntate alla messa al bando di qualsiasi “stanchezza”, confinata nella metafora letteraria o speculativa.

In questo recupero di nitore, in questo discernimento fra verità e finzione, in quest’abitare la sua krisis, si intravede una nuova idea di Europa, che assecondi un’altra ipotesi sul suo nome, dal greco eurus: ampio, dai grandi occhi, di larghe vedute. C’è Europa là dove si guarda fin oltre se stessi.

 

Articolo apparso sulla “Rivista del Cinematografo” n. 9 – settembre 2014, nel dossier “Destinazione Europa” che riserva interventi e testimonianze di Mauro Gervasini, Jean-Pierre e Luc Dardenne, Ermanno Olmi, Nicola Lagioia, Alba Rohrwacher, Ken Loach, Rick Ostermann e Alexandre Desplat 

 

 

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