Il dibattito si è aperto e si comincia a discutere, anche sui giornali, della necessità di introdurre forme di numero chiuso, programmato – o come lo si voglia definire – per le facoltà umanistiche ed è sicuramente serio l’argomento secondo cui i corsi di laurea in filosofia, lettere e affini non devono essere considerati il rifugio di chi non sia riuscito a superare i test di ingresso per corsi di laurea più seri e impegnativi.
È affascinante, ma anche assai faticoso, vivere questi anni in cui, su un versante, si sentono addirittura proposte di superare il prodotto interno lordo – famigerato pil – come indicatore dello sviluppo di un paese per sostituirlo con indici che tengano conto addirittura della felicità delle persone, mentre, sull’altro versante, si perde completamente di vista il senso e l’utilità della cultura, del senso critico, del gusto – o affini – per la vita individuale e sociale.
Sto coordinando in queste settimane due laboratori in cui si discutono questioni riguardanti la filosofia medievale e a cui partecipano anche studenti che probabilmente si sono iscritti al laboratorio perché non erano riusciti a iscriversi ad altri laboratori più interessanti. Qualcuno di loro ieri mi ha detto di avere scoperto un momento della storia della filosofia e un modo di discuterne cui non aveva mai pensato e mi ha addirittura ringraziato per quello che, in fondo, non è che il mio lavoro.
Mi devo augurare che cresca il numero di persone che intende dedicarsi professionalmente alla medievistica? Spero proprio di no, perché non credo ci voglia un economista o un sociologo per capire che non si tratta di un settore a forte sviluppo futuro. Mi devo augurare allora che cresca il numero di quanti si rendono conto del ruolo essenziale della conoscenza del pensiero medievale per capire la nostra storia e il nostro destino? Spero proprio di no, perché credo che del pensiero medievale si possa assolutamente fare a meno.
Mi auguro solo che aumenti, almeno di uno, il numero di persone che, scoprendo cose prima non sospettate nella millenaria vicenda del pensiero umano, sia più attrezzato a valutare criticamente opinioni precostituite o pregiudizi, in qualunque campo capiti di incontrarli. Poniamo per ipotesi che ci si sia incontrati perché aveva fallito test di ingresso ad altri corsi di laurea o perché pensava fosse un percorso di tutto riposo per arrivare al famoso pezzo di carta; e poniamo per ipotesi che nella sua vita futura lavori alla cassa di un supermercato, in un’officina di autoriparazioni o in una multinazionale che produce oggetti da giardino. Non credo proprio che possa essere più felice perché ha un vago ricordo di chi fosse Duns Scoto o perché ha discusso con altri dell’argomento ontologico di Anselmo d’Aosta.
Ma spero abbia arricchito il proprio senso critico e la sua capacità di guardare il mondo almeno di una quisquiglia o di una pinzillacchera.
Dopo tanti anni passati in mezzo alle parole e ai libri, viene una sorta di stanchezza e di rifiuto e capita talvolta di pensare quanto sarebbe stato meglio fare qualcosa di produttivo, arrivare alla sera vedendo di fronte a sé magari una sedia e sapere che la si è fatta, che è finita e che sarà certamente utile a chi avrà voglia di usarla per sedersi. E tuttavia, di fronte a questi dibattiti basati sulla efficienza, sulla produttività, sulla relazione con il mondo produttivo, viene da rivalutare la inutilità del lavoro cui si è avuto il privilegio di dedicarsi. Capire qualcosa di filosofia o di storia della filosofia, anche se si è improduttivi fuori-corso da anni, non rende più ricchi, più felici, più saggi, ma sono sicuro che, a lungo andare, rende migliore la società in cui viviamo.
“Sono tempi cattivi, tempi penosi!” si dice. Ma cerchiamo di vivere bene e i tempi saranno buoni. l tempi siamo noi; come siamo noi così sono i tempi. (Agostino, Sermo 80.8.)
L'ASINO DI BURIDANO
Negli anni 70 in Italia c’erano poche e prestigiose Università con professori degni di tale alto magistero. Oggi non c’è cittadina di provincia che non sia sede universitaria in cui non mancano docenti più adatti ad un istituto tecnico. L’offerta è dunque aumentata, ma deve essere aumentata anche la domanda, tant’è che si chiede ovunque il numero chiuso.
La ragione va cercata in una demagogica riforma della scuola, subalterna ai desiderata delle élite economico-finanziarie, che ha svuotato di senso i diplomi di scuola superiore trasferendo all’università i compiti di formazione precedentemente svolti da licei e istituti.
Ecco allora il rimedio, il numero chiuso. E’ vero, c’è il problema del basso numero di laureati (che la UE ci rimprovera), ma quello si discute altrove.
Sarebbe troppo semplice e invece ci sono più cose in cielo e in terra…, e quindi esiste anche il test, obbligatorio naturalmente, ma non essenziale per l’ammissione. A volte la logica modale sembra più rozza della logica burocratica.
Ci sono certamente più cose ecc… di quante ne contempli la (mia?) logica modale, ma la circostanza che il test sia ancora obbligatorio, ma non essenziale, come ricordo essere stato fino a qualche anno fa, mi pare figlia della logica — oddìo, meglio idea — del recupero di crediti formativi non acquisiti nel precedente percorso scolastico. Il che conferma la disfunzione del sistema di formazione e l’ipocrisia del supposto recupero con prove, spesso, del tutto fittizie e inefficaci, forse proprio perché pensate nell’ottica di un supposto recupero. Se poi si auspica il numero chiuso per impedire l’accesso a chi non riesce a superare il test da nessun’altra parte, si rischia di far pagare ai malcapitati il prezzo della disfunzione di un sistema scolastico che non è stato in grado di fornire loro una formazione adeguata.
Ma temo di continuare a parlar d’altro rispetto alla questione, importante, che tu hai sollevato. Infatti, io volevo solo aggiungere altre considerazioni, forse scontate, sul perché questi nostri sono tempi penosi, senza riflettere sul fatto che seguire un laboratorio di filosofia medievale possa comunque offrire a qualcuno un’occasione di cui essere grato.
Nulla da dire sulle tue osservazioni che riguardano il valore dell’insegnamento delle discipline umanistiche e che condivido pienamente. Mi viene però da aggiungere qualcosa sul numero chiuso e sui test di ingresso in generale. A mio modo di vedere l’introduzione dei test di ingresso equivale all’abolizione di fatto del valore legale del titolo di maturità e costituisce la prova della totale inadeguatezza di tutto il sistema scolastico che non assicura una formazione sufficiente, come dovrebbe, per l’accesso all’istruzione universitaria. E tanto va detto a proposito della buona scuola.
Non sono più al corrente sulla situazione attuale, ma se il test di ingresso comporta effettivamente l’esclusione dai corsi universitari, si tratta in realtà dell’introduzione del numero chiuso. Una cosa del tutto insensata, visto che il numero dei laureati in Italia è tra i più bassi di tutta l’unione europea. Tuttavia il numero chiuso viene presentato come necessario, mentre in realtà è una conseguenza della drastica riduzione dell’organico imposta dalle norme recentemente introdotte sul turnover. Altro che investimenti per l’istruzione!