Dialogo con Luca Diotallevi
MR: Incontro Luca Diotallevi in aula, dandoci il cambio tra una lezione e l’altra. “Di questa cosa di Ratzinger dovremmo discutere”, mi dice, “nulla sarà più come prima”. Bene, allora discutiamone. O almeno iniziamo a farlo. Luca conosce il mio punto di vista, esterno al mondo cattolico: non mi piacciono semplicistiche divisioni tra critici progressisti del Papa conservatore e difensori papalini di qualsiasi Papa. Non perché non abbia le mie preferenze su come mi piacerebbe immaginare gli sviluppi interni alla Chiesa di Roma, ma perché non credo che le categorie politiche di progressismo e conservatorismo siano adatte a leggere la realtà del modo in cui la Chiesa si pone nel mondo. Sono categorie esterne, appiccicate ad una realtà, la Chiesa, che viaggia su altri codici.
LD: La valutazione del Ratzinger teologo, del Ratzinger credente, del Ratzinger uomo di curia (ex Sant’Ufficio), del Ratzinger vescovo (prima a Monaco poi a Roma) richiederebbero prima trattazioni distinte e poi forse, ma non è sicuro, si potrebbe tentare una sintesi comunque molto difficile. Ma lo stesso capita per ogni essere umano e forse ancor più per ogni cristiano. Chi potrebbe trovare un filo di assoluta coerenza in una biografia come quella di Sant’Agostino? Certo non lui stesso, si pensi alle sue Confessioni. E Joseph Ratzinger è un innamorato di Sant’Agostino (anche se spesso nella prospettiva di San Bonaventura). Relativamente più facile è comprendere ed eventualmente valutare singole scelte, come l’ultima, quella della rinuncia. Con un colpo Ratzinger ha spazzato via le incrostazioni di sacralità che negli ultimi quattro secoli si erano sedimentate intorno al ministero petrino. In ciò ha portato a compimento l’opera di colui che lo volle vescovo a Monaco, e cioè Paolo VI. Che di incrostazioni spurie si trattasse lo mostra il fatto che, in fondo, Benedetto XVI non ha fatto altro che applicare un canone del Codice di Diritto Canonico, qualcosa che era previsto anche dal codice del 1917, ma che nel Codice vigente – del 1983 – porta impressa pienamente la ecclesiologia del Vaticano II. Certamente è un gesto che dispiace a coloro che resistono alla purificazione avviata dal Vaticano II, e che dispiace ancor più perché ad esserne protagonista è stato un Papa che forse si voleva affossasse il Concilio. Ma, alla fine, non è stato così, per quel mistero, come Benedetto XVI ha confessato, che è la coscienza posta di fronte a Dio, e dunque capace del massimo immaginabile di libertà e di rinnovamento. Naturalmente, nessuno ci garantisce che la novità prodotta dalla rinuncia di Ratzinger sarà accolta e proseguita da colui che sarà scelto come nuovo vescovo di Roma e dalla Chiesa del prossimo futuro. La libertà umana è una cosa seria e reale.
MR: Il gesto del Papa, le dimissioni, io le vedo come un segno di debolezza di fronte ad una barca difficile da governare, scossa da marosi di vario genere, alcuni più altri meno nobili, alcuni relativi a effettive diatribe su come porsi nei confronti del mondo, altri determinati invece da un accomodamento nel mondo decisamente imbarazzante. Tuttavia, il segno di una debolezza che Benedetto XVI ha saputo trasformare in sfida, in atto sovversivo di un modo di intendere il pontificato, per il quale è stata usata l’espressione ‘de-sacralizzazione’, che tu mi sembri condividere; quali possano essere le conseguenze di un simile atto riesco solo a immaginarlo, ma le vedo tutte – potenzialmente – in direzione di un rinnovato conciliarismo, a conferma della non adeguatezza della dicotomia conservatore/progressista. Il Papa più conservatore avrebbe messo in moto un meccanismo potenzialmente eversivo. Sei d’accordo? Cosa intendevi quando mi hai detto “nulla sarà più come prima”?
Sono completamente d’accordo con te. Non solo i progressisti – pensiamo alla sinistra italiana – spesso sono i più conservatori mentre a volte i conservatori trovano il coraggio e la forza di grandi riforme. E poi Ratzinger è stato un cristiano capace di preghiera e nella preghiera l’umiltà porta frutti imprevedibili. Ora siamo, come sempre nella storia della Chiesa, di fronte alla fatica di non confondere da una parte santo e sacro – la tradizione ebraico-cristiana è estranea al paradigma del sacro -, e dall’altra di fronte alla fatica di non appiattire santo su razionale o su naturale (due idoli, questi ultimi). Santità è riforma, piuttosto, anche se questa è ancora una formula introduttiva. Il tema è quale riforma della Chiesa oggi. La via cieca dei riformisti, il solito vicolo cieco giacobino, è quello di illudersi di progettare una riforma e poi di applicarla. La riforma va pensata ed agita contemporaneamente e senza l’ossessione di un disegno. Esso appare, se appare, solo alla fine. La riforma chiede umiltà e coraggio, santità, pensiero e ascolto, disponibilità al combattimento. Più che astratta coerenza.
MR: Tra le mille, c’è una questione che mi sta particolarmente a cuore, ed è il rapporto della Chiesa con l’universo delle altre fedi e tradizioni. La scorsa settimana su questo blog ho postato un pezzo di critica nei confronti di John Milbank e Roger Scruton, che mi sembrano espressione di un cristianesimo conservatore (qui credo espressione appropriata) con cui condivido certe analisi critiche nei confronti del secolarismo ideologico (non della modernità in toto, ma del secolarismo ideologico sì), ma non un atteggiamento pauroso e aggressivo al tempo stesso nei confronti del pluralismo religioso che caratterizza anche l’Occidente. Su questo punto continuo a percepire in alcuni ambienti cattolici e cristiani in generale una forte resistenza all’idea di un postsecolare interpretato in termini radicalmente pluralisti ed egualitari (che è la mia personale posizione), proprio come – per altre ragioni – una forte resistenza viene da una cultura laica e di sinistra (alla quale altrimenti mi sento di appartenere). Credi che su questo punto le considerazioni fatte sopra possano avere un qualche impatto? Una accelerazione in senso conciliarista porterebbe con sé cambiamenti a questo proposito?
Come sai, rivolgi questa domanda a qualcuno che ha forti dubbi sul concetto e le teorie imperniate sul postsecolare o sul pluralismo religioso assoluto. Ma non dobbiamo scoraggiarci perché un punto sul quale pensare insieme potrebbe esserci e secondo me vale la pena controllare, per lo meno teoreticamente. Il punto ce lo ha da ultimo suggerito proprio Benedetto XVI che per tutto il suo pontificato ha insistito sulla nozione di libertà religiosa ed ha proposto a tutti la Dignitatis humanae (dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa) come esempio e modello della riforma di cui il Vaticano II è stato capace ed a cui invita ancora tutta la Chiesa. Io non credo che libertà religiosa e paradigma postsecocale abbiamo molto in comune, ma credo che siano tentativi di risposte alle stesse questioni e tentativi di cercare equilibri sociali e spirituali che garantiscano elementi molti dei quali in comune. Varrebbe la pena provare in questa direzione.