Nel suo interessante articolo sul Corriere della Sera di mercoledì – 6.5.15 – Ernesto Galli della Loggia tratteggia un problema che sembra farsi sempre più evidente nel nostro presente: la nostalgia di un passato diverso e più tollerabile dell’oggi. La domanda iniziale sul fatto se questo sentimento possa o debba essere giudicato tipico di una mentalità conservatrice sembra collocarlo nel ben noto terreno dei laudatores temporis acti o del meno colto, ma altrettanto valido, si nasce incendiari e si muore pompieri.
Ma, come si precisa subito dopo, l’interrogativo non sembra riguardare né l’economia – l’inclinazione a schierarsi con il più forte o con il partito dell’ordine – né l’età, dal momento che Oggi tra l’altro, si sa, è più facile semmai trovare un progressista doc tra quelli che hanno i capelli grigi che tra i ventenni. Si tratta non tanto di conservatorismo, ma di nostalgia per uno Stato che ci ha consentito una convivenza in fin dei conti decente grazie alle sue amministrazioni, come la Banca d’Italia, le Sovrintendenze, i Provveditorati, il Genio Civile, l’Ufficio Geologico Nazionale, le Prefetture – persino le odiate prefetture! – e a una scuola capace di mantenere la disciplina dove bravi insegnanti non siano sottomessi alla sperimentazione, all’inglese, alle lavagne elettroniche e al mondo del lavoro. Ma allora si capisce bene che non si tratta di una proposta realistica perché queste cose – e lo riconosce lo stesso autore – non sono mai esistite e rappresentano solo una forma di dover essere.
Della protervia dei dipendenti pubblici ci siamo sempre lamentati – e forse non sempre a ragione – così come a proposito delle lobby o dei poteri territoriali abbiamo avuto grandi lezioni dalle componenti interne della DC o dalle spartizioni tra PSI e PCI, nelle aree riservate all’opposizione, e di programmi scolastici non sottomessi alle novità abbiamo sperimentato certo la lunga egemonia della riforma gentiliana, ma forse a prezzi che avremmo fatto volentieri a meno di pagare.
L’articolo cita ancora la nostalgia per le città libere da movida, pub, pizzerie al taglio, negozi alla moda da cui sono invece scomparsi barbieri, fiorai, ciabattini e librerie, e per i borghi dell’Italia antica con gli uffici postali e le stazioni ferroviarie. Non è facile sentire nostalgia per quei paesi dove i vecchi seduti sulla piazza, davanti alla chiesa, decretavano con verdetti inappellabili la credibilità, e quindi spesso il destino, dei passanti, soprattutto se donne con qualche tratto ai loro occhi di eccessiva modernità. E poi i fiorai non sono spariti, o almeno Milano è ricca di banchi di fiori bellissimi, agli angoli delle strade, sui marciapiede anche periferici, che forse una volta si vedevano solo nei paesi nei giorni di inizio novembre. I barbieri sono diminuiti ma non scomparsi e le librerie sono state in parte sostituite dalle vendite online e dai siti di libri usati, finalmente meno soggetti alla politica editoriale delle grandi case editrici; se non conoscevamo la movida, tuttavia nella vita delle città di provincia era centrale il momento delle vasche sotto i portici che noi giovani impegnati – prima nei gruppi cattolici e poi in quelli politici – disprezzavamo profondamente come attività di pura esteriorità esibizionista.
Ma è chiaro che non si tratta di nostalgia per qualcosa di determinato ma per un vago dover essere appunto nel quale ci sia posto per le buone maniere e il senso comune, che sempre sono stati descritti con riferimento a un passato imprecisato, come la famosa stretta di mano che al tempo del nonno – sempre al tempo del nonno – sarebbe stata sufficiente per concludere un contratto fra galantuomini. Se dovessimo prendere alla lettera questo ordine di considerazioni, allora potremmo lamentare anche la scomparsa dei fabbri, dei maniscalchi, delle stazioni di posta, dei calessi.
Tuttavia è vero che si sente nell’aria questa specie di nostalgia per una tradizione, che forse creiamo nel momento stesso in cui ne sentiamo la mancanza. Proprio il riferimento alla decenza – torna alla mente la common decency di cui parlava Orwell – e al senso comune aiutano a comprendere che probabilmente è davvero opportuno riprendere la riflessione su alcuni temi che consentano di accantonare l’alternativa tra progressista e conservatore che si spegne nel solco del pensiero unico liberale – al tempo stesso progressista e conservatore – e di operare le necessarie distinzioni tra socialismo, liberalismo, destra, sinistra, progressismo, tradizionalismo, internazionalismo, cosmpolitismo.
Non possiamo saperlo, ma forse bisognerebbe trovare il modo di verificare se, da qualche parte, si trova la forza che aveva invece il senso del decoro (”no sta ben”), di ciò che riscuote la sanzione della comunità, e che può differire profondamente non solo da quello che prescrive la legge, ma anche da quello che ingiunge la religione (Luigi Meneghello, Libera nos a malo, in Id., Opere scelte, Mondadori 2006, p. 125).
L'ASINO DI BURIDANO
Solo un dubbio, senza alcuna intenzione di buttarla in ideologia. Nelle parole di Loris sembra profilarsi l’immagine di una società e di una politica che, per motivi che naturalmente andrebbero analizzati, abbiamo perso, rifiutato o distrutto. Nel momento in cui si allontanano, forse anche quegli aspetti danno origine a una specie di tradizione per la quale sentiamo nostalgia. Se si cerca di rimanere più aderenti alla realtà storica, non sono sicuro che quelle cose si siano realizzate nei termini in cui le ripensiamo e, anche se in parte si sono realizzate, stiamo facendo riferimento a una ventina, trentina d’anni al massimo – più o meno tra 1965 e 1995 – che sono un attimo fuggente nei millenni della nostra storia.
Personalmente sento la nostalgia per qualcosa che non ho vissuto o che ho solo intravisto: uno stato sociale forte, una politica che ha l’ambizione di dare forma alla società, delle formazioni politiche capaci di creare un minimo di connessione tra vita individuale e vita collettiva, un lavoro dignitoso che dia un minimo di prospettiva di vita, un contratto di lavoro dignitoso che permetta di non essere totalmente sottomessi, un salario dignitoso che permetta di non doversi inventare tutti i giorni acrobazie per mettere insieme un reddito, una vita collettiva non totalmente integrata nel mercato, nella produzione, nel consumo, nelle esigenze e negli interessi delle élite … eccetera. Cioè una vita in cui delle cose che Galli della Loggia detesta, e quelle che gli piacciono erano meno potenti e diffuse. Per questo, a uno come lui piace mistificare i cambiamenti e spostarli sul piano astratto della decenza, della tradizione, del costume. Consapevole che il punto non è quello, la butta in ideologia.
Stavolta é proprio bello e non autoreferenziale come spesso ti accade (negli ultimi mesi). Mi ricorda il blog di risposta a Lia che rimpiangeva cose abominevoli. E poi mi piace la rapida (e profetica?) riflessione sulla tradizione che forse comincia quando la vagheggiamo nel pensiero, insomma inizia quando deploriamo che sia finita. La tradizione non come un passato autorevole e imperioso ma addirittura un progetto, un ricercare fra cose vecchie e amate, ma disparate e incongrue, e un fabbricare – mettendole insieme – qualcosa di unitario, una linea da disegnare e fare nel futuro? Boh.