Pochi giorni fa, i senatori del PD hanno ripresentato il disegno di legge sull’ordinamento interno dei partiti, ereditato dalla precedente legislatura, e subito sono stati subissati da un coro di critiche, sull’assunto che con esso volessero escludere dalle prossime elezioni i movimenti e quindi i grillini. Ed ecco allora tutti, non solo i grillini, a pontificare sulla grave e sgraziata inopportunità di una iniziativa del genere. Mi sono chiesto a questo punto se ero sempre nello stesso paese che, neppure un anno fa, questa legge la invocava a gran voce, sino a ritenere addirittura un vulnus che non la si fosse approvata prima della nuova disciplina sul finanziamento dei partiti (licenziata poi nel luglio), di cui avrebbe dovuto essere l’indispensabile cornice. Qualcuno è arrivato a sostenere che il disegno di legge è addirittura incostituzionale, perché una legge la Costituzione la prevede per la registrazione dei sindacati, all’art. 39, mentre nulla dice all’art.49, dedicato appunto ai partiti.
Ebbene, è vero che l’art. 49 non prevede alcuna legge, ma qui un po’ di storia ci aiuta a capire perché e perché invece un anno fa la si volesse. Norme sulla democrazia interna dei partiti ci sono in molti ordinamenti democratici, ma i nostri Costituenti furono molto cauti sul tema, perché c’era il timore del partito comunista di diventarne il bersaglio sino a trovarsi fuori legge (come poi sarebbe accaduto nella nuova Germania federale). Di qui quel concorso alla politica nazionale “con metodo democratico” dell’art. 49, una formula ambivalente, subito interpretata nel senso che democratici i partiti dovessero essere nella loro azione esterna, senza che nessuno potesse mettere però il naso nella loro organizzazione interna.
Questa eccezione italiana ha retto sino a quando i partiti hanno avuto la forza di farsi accettare come i veri sovrani del nostro sistema istituzionale. Ma col tempo i cittadini si sono sempre più accorti che erano i partiti a dover essere un loro strumento, non loro uno strumento dei partiti. Negli anni ’80 Norberto Bobbio scrisse pagine memorabili su questo e da allora, grazie anche alla normalizzazione del partito comunista, quel “metodo democratico” ha preso ad essere inteso, sia come metodo esterno, sia come metodo di organizzazione interna. Non solo, quando dei partiti sono venute fuori le vere e proprie magagne, che vi fosse una legge a garanzia della loro democrazia interna è diventata una vera e propria pretesa, una pregiudiziale perché continuassero a ricevere, in una forma o nell’altra, risorse pubbliche.
Di qui il clima dello scorso anno, quando fu corale in Parlamento la richiesta di democrazia interna, trasparenza delle procedure e dei conti, registrazione degli statuti e degli organi dirigenti. Il che pareva opportuno non solo per ragioni di democraticità, ma perché in un paese tormentato dall’ infiltrazione di criminalità organizzata e di logge segrete, sapere a chi i cittadini danno i loro soldi e affidano la selezione dei candidati alle cariche pubbliche è una preziosa garanzia. Ed era ovvio, allora, che ciò valeva per i partiti come per i movimenti, se ed in quanto i movimenti volessero usufruire di agevolazioni pubbliche e presentare candidati alle elezioni.
Ebbene, ora nulla di tutto questo è vero, perché tornato il timore del vecchio Pci, che serva non a regolare, ma ad escludere qualcuno? Sbaglia dunque anche il Governo, che nel documento approvato venerdì scorso sul ridimensionamento del contributo pubblico alla politica, la democrazia interna torna a richiederla? Toccherebbe ai “saggi”, cioè agli esperti, diradare gli equivoci e gli errori con i quali si alimentano, in questo come in altri casi, i duelli della politica a caccia di facili consensi con anatemi scagliati sugli avversari. Ma in questo, come in altri casi, si preferisce tacere, se non vellicare l’uno o l’altro dei contendenti. Peccato. La democrazia vive anche di seria informazione e immetterla nel dibattito pubblico è una irrinunciabile responsabilità di chi la possiede chi la possiede.