Stamattina il “Corriere della sera” ha pubblicato una bella recensione (un modello di stile e linearità di pensiero) fatta da Ernesto Galli Della Loggia ad un libro di per sé complesso e a tratti ostico: l’ultimo di Roberto Esposito, intitolato Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero (Einaudi, pagine 233, euro 21). L’articolo, molto lungo, si divide sostanzialmente in due parti: nella prima, l’autore affronta il nucleo concettuale del volume; nella seconda, muove invece una critica alla proposta teorica e anche in lato senso politica del pensatore napoletano. Poiché su quest’ultima sono già intervenuto, in totale accordo con le riserve di Galli della Loggia (http://www.corradoocone.com/articolo_view.php?id=212), mi concentro in questa sede sul primo aspetto. Ciò anche in considerazione del carattere filosofico di questo blog. Faccio oggetto della mia attenzione, detto altrimenti, l’idea che muove il libro: quella che vede “l’intera vicenda occidentale”, come scrive il recensore, “come connotata nel suo farsi da una dualità di fondo e dal permanente tentativo, mai giunto a compimento, di risolvere il Due nell’Uno”. Si tratta, per dirla con le parole di Esposito, della “macchina della teologia politica”: di un “dispositivo” che, “imprigionando” le nostre vite, andrebbe finalmente messo alle spalle o “superato”.
Ora, a parte il fatto che “imprigionare” è un termine troppo forte, che finisce cioè con l’avere un carattere valutativo che non dovrebbe avere, è vero che la metafisica occidentale, e quindi l’Occidente stesso, si fonda su una serie di “duplicità divisive” che si tende continuamente ad annullare con un processo di “inclusione escludente” di uno dei due poli del rapporto: immanenza/trascendenza; vita/forme; essere/nulla; eterno/tempo; soggetto/oggetto; io/mondo; anima/corpo… Il problema è però di capire se il “superamento” dei dualismi debba avvenire in una forma misticheggiante e comunitaria (anche se non comunitaristica), come quella che lascia intuire Esposito, oppure approfondendo il loro senso senza pensare di eliminarli ma vivendoli fino in fondo e trovando ogni volta la mediazione in un terzo che li ricomponga parzialmente e provvisoriamente. Il Tre mi sembra perciò da anteporre al Due, come momento di una “sintesi” che è però insidiata al suo interno e che tende pertanto a rifarsi continuamente Due. Tale continua “composizione” e “riscomposizione” del dualismo fu il tentativo titanico che Hegel affidò alla sua “logica del reale”, la dialettica, che egli volle affiancare, affinché ne desse ragione, alla logica formale o intellettualistica (fondata sul principio di non contraddizione) che è particolarmente pertinente al mondo diviso del Due. Il suo tentativo fu di immettere, prima di Heidegger, la temporalità nell’essere, superando il dualismo di Tempo e Verità che sorregge insieme agli altri tutta la vicenda occidentale. La dialettica, come logica e movimento del reale (ontologia), è, a ben vedere, il “vero dir di sì” alla vita che Nietzsche cercava, mentre ogni altra e diversa forma di “superamento” finisce per risultare pretestuosa e oltreumana o antivitale. Da questa velleità credo nasca anche la pulsione anticapitalista che permea sempre più, mi sembra, la pagina di Esposito. E che, come simpaticamente fa notare Galli Della loggia, gli fa fare un “vertiginoso salto da Nietzsche al professor Rodotà (nel caso migliore)”.
Certo, Hegel non sempre tenne fermo al suo assunto di una dialettica aperta. E finì per concepire, così come per altri rispetti fece poi anche Marx, un momento terminale di assoluta autocoscienza e autotrasparenza. Ma questo non toglie che quella logica risulti essere la più appropriata “soluzione” di “superamento” concessaci. E che essa possa conciliarsi alla perfezione, anzi coincidere, come Croce ha dimostrato, con un liberalismo che per questa sua aderenza al reale è una filosofia prima e ancora che una dottrina politica. Un liberalismo finalmente riconciliato con la filosofia, e cioè con la dialettica, e fortemente impregnato di realismo politico, sarebbe a ben vedere una buona, forse la migliore, risposta alla consapevolezza di pensiero che l’essere umano ha finora raggiunto.