Sono passati esattamente 50 anni. Era il 1967 quando la radio italiana cominciava a trasmettere una canzone di Francesco Guccini, più conosciuta però attraverso la voce di Augusto Daolio, l’indimenticabile cantante dei Nomadi. Erano gli anni in cui si parlava di paura della bomba: la guerra fredda, la corsa agli armamenti, la guerra nel Vietnam, le prime ribellioni nei campus universitari americani mettevano all’ordine del giorno una riflessione sui rischi rappresentati da quella che, quasi familiarmente, veniva chiamata l’atomica.
Il cosiddetto Doomsday clock, l’orologio del giudizio universale, per mezzo del quale gli scienziati che collaborano al Bulletin of the Atomic Scientists segnalano la maggiore o minore vicinanza alla possibile mezzanotte dell’apocalisse atomica, arrivò nel 1968 a segnare 7 minuti alla fine. Se ne parlava e se ne cantava: Vedremo soltanto una sfera di fuoco / più grande del sole, più vasta del mondo; / nemmeno un grido risuonerà / solo il silenzio come un sudario si stenderà / fra il cielo e la terra / per mille secoli almeno / ma noi non ci saremo.
Probabilmente anche su questa consapevolezza, sul ricordo di Hiroshima e Nagasaki, sulla paura del futuro si stava avviando quello strano fenomeno che nel giro di qualche anno portò, a livello mondiale, al formarsi di una specie di classe sociale rappresentata dai giovani di tutti i continenti che cominciarono a mettere in discussione il famoso sistema.
Fin dal 66 un altro complesso italiano, i Giganti, cantava, con quell’ironia che spesso ne caratterizzava le esecuzioni, che Noi non abbiamo paura della bomba / noi non abbiamo paura della bomba / atomica, atomica, atomica / atomica, atomica, atomica! e l’anno successivo portava addirittura al terzo posto del Festival di Sanremo una canzone che riprendeva una parola d’ordine del movimento hippy: Mettete dei fiori nei vostri cannoni.
Se ne parlava e se ne cantava. All’inizio di quest’anno il Doomsday clock è stato portato a due minuti e mezzo dalla mezzanotte e credo che in questi giorni potrebbe andare ancora un poco avanti. Il medio-oriente è una polveriera dove tutti combattono contro tutti; la rinata democrazia russa sembra presa da antiche nostalgie zariste; la solida democrazia americana, che aveva portato il primo nero alla presidenza, ha recentemente eletto un personaggio che parla di bombe e le sgancia con preoccupante naturalezza; il lontano oriente sembra tornare all’inizio degli anni Cinquanta, ai terribili tempi della guerra di Corea.
Ma oggi se ne parla poco e non se ne canta. Non si tratta solo di discutere dei movimenti pacifisti, della politica europea, della paralisi dell’Onu; quello che stupisce è il silenzio che su questi temi si coglie alla fermata del tram, al bar sotto casa, al festival di Sanremo, in pizzeria. Non abbiamo più paura della bomba? Non ci assale più il dubbio che noi non ci saremo? Forse cinquant’anni di relativa tranquillità hanno intorpidito le coscienze o forse è vero che siamo destinati a non poter fare a meno di farci ricorrentemente del male, per poter ripartire con maggiore entusiasmo. Ma il rischio che non sia più possibile allargare i conflitti, pur mantenendo la possibilità di fermarsi, era proprio quello che metteva angoscia mezzo secolo fa. Speriamo di poterci ricordare in tempo che … dai boschi e dal mare ritorna la vita / e ancora la terra sarà popolata, / fra notti e giorni il sole farà le mille stagioni e ancora il mondo percorrerà / gli spazi di sempre per mille secoli almeno / ma noi non ci saremo.
L'ASINO DI BURIDANO