Ieri, 21giugno, a Santa Maria in Trastevere: l’evento ecclesiale “morire di speranza” ha visto un nutrito numero di celebranti entrare in Chiesa accompagnati da uomini e donne africani vestiti in abiti tradizionali che intonavano canti, musiche e balli dei loro paesi d’origine. Arrivati all’altare i religiosi hanno seguito la lunga rappresentazione musicale, con tamburi in particolare, prima di chiamare i fedeli ad ascoltae il Vangelo e riflettere sul dramma delle morti nel Mediterraneo, e non solo, di chi cerca salvezza da carestia, fame, guerra, miseria, persecuzione. E’ seguito il lungo elenco di nomi e gruppi e numeri di chi è morto di speranza in questi anni. A ogni citazione un sopravvissuto andava ad apporre una candela accesa mentre sotto l’altare venivano poste alcune gigantografie di salvataggi e fughe. Dopo tanto tempo io personalmente ho riprovato il piacere di essere in un luogo di culto, che sentivo produrre spiritualità e cultura, non mestizia e senescenza.
La folla che gremiva al di là della capienza della chiesa l’evento ecclesiale- non era una Messa- ha potuto così capire che lì in effetti si stavano tenendo due celebrazioni. da una parte il ricordo di chi muore di speranza, dall’altra di chi spera di morire: la nostra civiltà.
Chiusa, triste, incattivita, infelice, la nostra civiltà rifiuta una verità evidente: solo il meticciato potrebbe tenerci in vita evitandoci il gelo dell’epoca illiberare; non per altruismo, ma per il gelo demografico in cui siamo precipatati per i vizi ideologici del passato, in cui abbiamo creduto, ma che poi si pagano. Solo il meticciato potrebbe tenerci in vita per la stanchezza di cui siamo portatori e per la gioia di vivere di cui chi spera di vivere, non di morire, è naturalmente portatore. Solo il meticciato potrebbe tenerci in vita perché nell’era della globalizzazione se il mondo diventa un supercato, nel quale i tornelli girano per i capitali ma sono bloccati per gli uomini vuol dire che l’odio, la violenza, il terrorismo, ci conquisteranno. La vera invasione, si leggeva nei canti che rempivano Santa Maria in Trastevere, è quella dei nostri cuori, bisognosi dell’affetto, del calore, della vita, dell’energia, della cultura, del lavoro, della fanatasia di chi spera di vivere, non di morire.
La follia di un Paese che avrebbe urgente bisogno di tre milioni di nuovi italiani per riprendere il cammino del proprio Rinascimento previdenziale, spirituale, culturale, economico, si vedeva nell’assenza di qualsiasi rappresentanza governativa.
Di generosità non si vive, ma senza generosità si può perdere il senso della propria stessa salvezza. Un paese vecchio, incattivito, depresso, infelice, ma pur sempre un Paese di oltre 50milioni di persone si fa spaventare da 100mila disperati, si bea di averli accolti ma non sa istruirli, impiegarli nel servizio civile, inserire la loro musica, i loro valori, la loro spiritualità, nella nostra musica, nei nostri valori, nella nostra spiritualità.
Se l’Europa non accoglie l’Europa si uccide, se l’Europa non si dota di sistemi legali di ingresso per gli asilanti verrà odiata e detestata dagli altri ma anche dai testi che ha scritto dicendosene fiera, se l’Europa non vara un piano Marshall per l’Africa l’Europa non ha sbocchi, non ha proiezioni, non ha dimensione, non avrà un Rinascimento nel Terzo Millennio. Ieri a Santa Maria in Trastevere abbiamo visto che da una parte si può morire di speranza e dall’altra sperare di morire, tanto da rifiutare chi viene ad aiutarci a uscire da questo malessere profondo. Non vengono per stare a bighellonare una vita intorno alla piazza del paesino, o per dormire in lebbrosari di estrema periferia, o per delinquere con le nostre mafie. No, vengono per aiutarci a ricostruire la nostra agricoltura, ad esempio, ma soprattutto per riportare linfa vitale in un processo culturale che, ancorato al Rinascimento, sappia uscire da questa tristezza, da questa afonia, da questo malessere chiuso alla vita.
Grazie Riccardo,
condivido la tua riflessione