Nel 1994 nasceva Salvo Montalbano: da un lato come Minerva, cioè già armata, e da un altro malformato, anzi non ancora formato: “con un piede in aria”, come disse Camilleri. Il quale scrisse La forma dell’acqua lasciando che il suo personaggio prendesse da solo la sua forma, appunto come l’acqua quella del contenitore. Così è stato. Venti anni dopo – e un ciclo di ventidue romanzi, racconti a parte – il commissario si è rivelato la figura di romanzo più conforme al suo tempo, ciò che ne spiega il successo in televisione. Nevrotico, depresso, insoddisfatto e sempre più preda delle “vecchiaglie”, interprete quindi di un malessere che è sociale e contemporaneo, Montalbano ha preso la forma mentis comune. E’ stato un processo socio-psicologico di cambiamento molto lungo, passato attraverso diversi stati di coscienza che Camilleri ha reso a tappe in una scala crescente di surrealismo, facendo di Montalbano un suo paziente (trasposizione del nostro presente) indotto a vivere un Doppelganger, poi a parlare a se stesso, a scriversi quindi lettere, a vedere un “Montalbano Secunnu” che gli dà suggerimenti, a parlare con l’autore, a vivere fenomeni didejà vu e ad incontrare infine (nell’ultimo episodio che uscirà post mortem) il suo alter ego televisivo.
Ma in questa escalation, più che altro un caso clinico, il commissario non ha perso le qualità di cui era nato già provvisto uscendo dalla testa di Camilleri, appunto come Minerva dal cranio di Giove con elmo e lancia. L’intuito innanzitutto. Il commissario è un logico che arriva alla soluzione dei casi quasi sempre grazie a una rivelazione, una sorta di flash che lo illumina improvvisamente. Si potrebbe dire che è il caso a regolare il poliziesco, che quindi ha poco di holmesiano e maigretiano, se non fosse per la stessa natura psicomachica del commissario, di un uomo dall’io lacerato che deve molto a Lacan e a Greimas: il Lacan dell’immaginario simbolico per il quale una scena si crea nell’inconscio prima della conoscenza reale attraverso segni che possono essere il sogno, il lapsus e anche il “lampo”; e il Greimas della saisie esthétique, la “presa estetica” che ci permette di ricevere una luce abbagliante, derivata anche da uno spot pubblicitario o da qualsiasi altra occasione, in forza della quale maturiamo un giudizio solo quando la luce è svanita, lasciandoci la rappresentazione di un nuovo stato di cose: proprio quello che succede al commissario di fronte a un’incognita, che risolve infatti con “una presa estetica”. Si tratta della percezione, tema sul quale Camilleri ha polemizzato con Borges per il quale la percezione coincide sempre con l’oggetto percepito mentre secondo lo scrittore siciliano prima si ha la percezione dell’oggetto, che rimane però amorfa, soprattutto in un’indagine di polizia, fino a quando non invalga il ragionamento a darle consistenza di realtà.
E’ una forma di areté quella che anima Montalbano: un’abilità interiore che non rende eroi ma sottende la virtù di una coscienza laica spinta ad essere eretica quanto alla questione della giustizia, vista in un ambito giusnaturalista che – come molte volte è successo lungo la serie dei gialli – può indurre il commissario a stare dalla parte di Clitennestra e Antigone e ammettere il delitto e il reato. Questa particolarità non può non piacere al pubblico non solo italiano, indotto a preferire un canone giudiziario più a misura d’uomo che di Stato, persino giustizialista quando la legge si rivela, sciascianamente, un “ingranaggio” e la giustizia si mostra un sacco vuoto senza che venga messo dentro l’uomo.
Camilleri è stato molto attento a questi processi col fare del commissario un uomo comune, indifferente alla carriera, refrattario ai trasferimenti, timido in pubblico, sostanzialmente solo, buongustaio e donnaiolo, comprensivo e sensibile quanto invece irriguardoso nei confronti dei superiori se soprattutto corrivi con i poteri forti e collusi con la politica. E’ per dargli questa forma che Camilleri nel 1997, con La voce del violino, cambia le squadre, intendendo isolare ancora di più Montalbano nella sfera di una controfisica del potere che lo legittimi come antieroe popolare. Cosicché cambiano il questore, il capo della mobile, il capo di gabinetto, il sostituto procuratore, il capo della Scientifica perché facciano largo a uno schieramento ostile teso ad assediare il commissario.
Al quarto romanzo del ciclo dunque Montalbano poggia anche l’altro piede a terra e può dirsi in qualche modo formato. Senonché nel 2003 avviene un’altra mutazione coscienziale. Con Il giro di boa, dove peraltro si sente male, Montalbano ha il primo cedimento psicologico che lo porterà a un aggravamento progressivo con ripetuti attacchi di panico e stati di depressione che minacciano di cronicizzarsi e di relegarlo, come lo vede il medico legale Pasquano in Il gioco degli specchi, nella condizione di un dropout avulso dal suo tempo. Un errore, perché Montalbano è proprio al suo tempo che fa da specchio sin dal primo momento. Sopravvivendo anche all’era berlusconiana in concomitanza della quale ha inaugurato il proprio ciclo, che è giunto oggi allo stato limite dell’entropia. Il commissario dovrebbe essere in pensione tra un anno, quando avrà sessantacinque anni, ma non c’è chi non gli auguri una permanenza in servizio ad oltranza, così che possa continuare, pure malato com’è, malmesso e demotivato, eterno scapolo solitario e depresso, a testimoniare il nostro presente.