Se anche Umberto Eco interviene nell’affare Rcs-Mondadori, vuol dire che non si tratta di ballon d’essai. Resta però da stabilire perché una tale autorità (che può pubblicare sotto qualsiasi marchio senza il minimo timore che un gruppo così egemone possa, come ventila egli stesso, condizionare gli autori e sottometterli al suo capriccio) prenda posizione contro l’acquisizione da parte di Segrate di parte del secondo editore italiano. Nell’articolo su Repubblica uscito martedì Eco rivela solo alla fine la ragione del no: quando auspica la formazione di una cordata di imprenditori, anche stranieri, che salvi le sigle Rizzoli garantendo loro l’indipendenza e scongiurando così che finiscano in mano a Berlusconi.
Pur riconoscendo che Berlusconi ha lasciato gli editori come Einaudi liberi di seguire la loro linea editoriale, Eco preferisce perciò che il Gruppo Rizzoli divenga proprietà di arabi o sovietici o magari cinesi pur di non vederlo nel patrimonio di Berlusconi. E’ dunque la pregiudiziale Berlusconi che pesa sui reali vantaggi di una holding che finalmente deterrebbe sullo scacchiere europeo una posizione di dominio, l’unica che possa dirsi italiana. Questo risultato, per qualche ragione, è visto anche da Eco come una conseguenza nefasta, cosa che però non venne mai contestata alla Fiat né alle griffes dell’alta moda made in Italy quando dominavano il mercato continentale. Le ragioni che adduce Eco si stenta a credere che siano davvero sue: teme che i premi letterari possano essere decisi da una sola casa editrice, come se oggi il fatto che siano due o tre a stabilire e programmare i vincitori cambi di molto la realtà. E soprattutto ha paura che, finendo Rcs in casa Berlusconi, possa un giorno l’ex cavaliere vendere un ramo dell’azienda a quanti potrebbero “sviluppare una forte vocazione censoria” della libertà di espressione. Dunque Eco sarebbe disposto a vedere a capo della Rcs degli stranieri quali che siano ma è contrario che possa essere Berlusconi non solo a comprare ma anche eventualmente a vendere. Secondo lui l’insorgenza di un trust minaccia la libertà degli autori, quasi che gli autori siano oggi davvero liberi di scrivere e pubblicare ciò che credono e non viga piuttosto già da molti anni una censura, nelle modalità anche ideologiche e politiche, che proprio Mondadori e Rizzoli esercitano pesantemente attraverso i libri e soprattutto le loro testate. Accorpare le due sigle in una dovrebbe semmai, in teoria, ridurre il peso della censura anziché incrementarlo.
Il fronte alzato dagli autori contro la pregiudiziale berlusconiana coincide con una polemica di stagione che è quella della candidatura di Elena Ferrante allo Strega. Dimenticando che già fu candidata molti anni fa con un esito rovinoso, Roberto Saviano ha proposto il suo nome quantomeno nella cinquina, così da dare una scossa al più ghiotto e ingessato premio letterario italiano. La (o il) Ferrante ha replicato ringraziando per l’augurio, proponendosi senza dichiararlo, e avvertendo che – trattandosi il suo romanzo candidabile del quarto episodio di una serie che mai è stata presentata come tale – i giurati dovrebbero leggere anche gli altri romanzi e premiarli tutti in blocco. Ciò che è davvero improponibile. La polemica giova comunque, vista a ridosso dell’altra sull’accorpamento Rcs-Mondadori, a capire come funziona la giostra editoriale italiana, attorno alla quale tutto è nebbia e ogni cosa che viene detta è necessario che sia vagliata al lume di una verità elusiva ed evanescente, accettando posizioni antitetiche, ritrattazioni e giochi d’ombra: cosicché si permette a una autrice (o autore) di pubblicare in assoluto anonimato e di farsi personaggio al di là della qualità di romanzi scritti da una Liala stanca di svenevolezze, premiandola proprio per questo nell’intento di farne un fenomeno dopo averne montato il caso, per modo di rilanciare uno Strega che comincia a inacidire, mentre si grida allo scandalo se due grandi case editrici, sotto la luce del sole o quasi, negoziano la costituzione di una holding nella quale è già dimostrato il mantenimento delle singole identità ma che pecca per il maggior potere che conferirebbe a un magnate il quale, possedendo già il controllo dell’emittenza televisiva privata, diverrebbe ancora più potente.
Se la e/o editrice ha trovato furbescamente e deliberatamente come accrescere il suo fatturato colludendo con la (o il) Ferrante perché ne sia mantenuto un ben remunerativo anonimato senza che nessun Eco pretenda che ne sia fatto il nome, a maggior ragione per partecipare a un premio letterario non come fantasma o convitato di pietra, come vorrebbe Saviano, così da impedire che altri autori o magari tutti possano pubblicare in incognito (questa sì sarebbe una grave minaccia alla libertà di espressione perché diventerebbe licenza), né altri abbia lanciato alti lai, per quale ragione è invece considerata gravissima una fusione, che peraltro fusione non è, tra due marchi editoriali uno dei quali rimane il più ambito anche dai più tenaci e irriducibili antiberlusconiani? Se insomma la Einaudi ha conservato intatte le proprie insegne, perché mai la Bompiani di Eco dovrebbe perderle in casa Mondadori? A dolersi di una tale concentrazione possono essere le altre sigle come il Gruppo Gems o la Giunti, non certo i singoli autori come vuole Eco. Ma nemmeno i piccoli editori, a ben vedere, subiranno danni maggiori, anzi avranno più terreno sgombero sul quale seminare la propria diversità. Dopotutto Elena (?) Ferrante potrà rimanere nell’ambito della sua e/o a scrivere romanzi il cui maggior punto di interesse è di scoprire dallo stile se siano di genere femminile, maschile o misto, senza che questo spirito dell’innominato intacchi minimamente le casse degli editori. Proprio la sua maschera e il suo pseudonimo, del tutto irrituale e forse pure illegale, sono la prova dell’irrilevanza dell’affare Mondadori sul piano dei reali interessi in libreria. Dove se dobbiamo abituarci a ignorare chi è l’autore, a maggior ragione ci verrà facile soprassedere sull’editore.