Il ministro dell’interno, Marco Minniti, comincia a vedere la luce infondo al tunnel. Forse ha ragione lui. A me però, infondo al tunnel, sembra di vedere l’ abbandono di centinaia di migliaia di esseri umani ai quali vengono negati i più elementari diritti, a partire da quello a sopravvivere. E i loro volti, messi insieme, sono un mega-volto, quello di Giulio Regeni. Mi sbaglio? Per capire bisogna avvicinarsi agli avvenimenti di questi giorni e per farlo è impossibile cominciare dalla fine. Occorre guardare bene dall’inizio. E l’inizio indubbiamente sta laggiù, in Siria.
Corre l’anno 2011; la classe dirigente europea si disinteressa completamente a quanto accade intorno al castello dove un regime protetto da apparati ideati dall’ex SS Alois Brunner finisce assediato da un popolo disarmato. Un popolo in larghissima maggioranza arabo e musulmano. Fatto di enorme rilevanza. Il luogo dove tutto ciò accade è altrettanto importante: Damasco infatti si trova nel cuore del collo di bottiglia che unisce Europa e Asia, l’epicentro del Levante, cioè di quel pezzo di mondo arabo che ha conosciuto il cosmopolitismo, la convivialità. La parentesi nazista sta per concludersi? Quanto sarebbe importante se si concludesse felicemente proprio qui, nella ex capitale dell’impero omayyade? Quanto sarebbe importante se un esito felice si verificasse proprio nel punto dove la strozzatura anatolica connette il Golfo Persico e il Mediterraneo, il deserto e le più grandi aree industriali del vecchio mondo?
La domanda non interessa. Nell’indifferenza della leadership europea si lascia che la Siria diventi teatro di un genocidio tanto feroce quanto pianificato per fare di quella terra la nuova Terra Promessa di milizie khomeiniste determinate a riportare il loro impero, quello persiano, fino alle coste del Mediterraneo. Abbandonata alla più efferata ferocia miliziana, sostenuta dalla Russia, la larga maggioranza arabo sunnita di quel paese finisce seviziata e quindi prigioniera di una deriva terrorista, che conquista territorio presentandosi come reazione a chi vuole conquistarlo: quella che ha nell’Isis il suo riassunto visivo. Il conflitto da Iraq e Siria si estende al Nord Africa e all’Europa, facendo di Assad, il padre dell’espulsione di massa di milioni di sunniti dalle loro case, l’eroe dell’antagonismo occidentale, come al solito accecato da qualsiasi propaganda di odio nei confronti degli Stati Uniti e Israele. Il volto di Assad, a carico del quale secondo Carla Del Ponte ci sono tutti gli elementi per procedere in sede internazionale per crimini contro l’umanità, diviene il volto-simbolo di una “resistenza” contro l’islam terrorista e contro gli Stati Uniti e Israele, che secondo la propaganda quel mostro avrebbero costruito in laboratorio. La storia ovviamente è ben diversa, il mostro è stato costruito, molto più logicamente, proprio da Assad, per avere un nemico dell’umanità che legittimi agli occhi del mondo la sua strenua difesa del suo stesso potere. Lo dimostra in modo lampante la decisione di arrestare in massa i manifestanti del 2011, riempiendo con essi le carceri svuotate dai terroristi, tutti amnistiati. Accanto a quel morbo si innesca il tentativo delle petromonarchie del Golfo di difendere se stesse dalla contagiosa rivoluzione democratica foraggiando in Siria altri gruppi integralisti, fanatici, terroristi. Nella speranza di abbattere sia Assad sia la rivoluzione.
Come tutti i tumori anche quello jihadista si espande, l’Isis calcola di poter far proseliti in Europa e Nord Africa proprio puntando sull’odio che nascerà dalla paura: odio che sarà islamofobo. Inoltre conquista spazi per il fallimento delle nostre politiche di integrazione, catturando nella sua rete prefabbricata i nuovi nichilisti, le seconde generazioni assetate di rabbia e vendetta verso gli stati di cui non si sentono cittadini e verso i genitori di cui non si sentono più figli. L’incendio terrorista crea altra paura, che alimenta il progetto politico dell’estrema destra europea. La teoria dello scontro della civiltà trova nell’Isis il suo miglior propagandista. Nel Levante una storia secolare di convivialità va distrutta, la pulizia etnica imposta dalle milizie khomeiniste getta milioni e milioni di diseredati sunniti sui confini dell’Europa. Ovviamente sono loro ad essere percepiti come invasori, non chi mette a ferro e fuoco le loro città. Resiste solo il muro “umanitario”, che non può tenere in assenza di una lettura politica della crisi. Perché in assenza di una lettura politica quel lavoro finirà con l’essere percepito come complicità con gli invasori. E nel 2017 questo puntualmente accde: il lavoro umanitario diventa un crimine. La sola alternativa al fare del Mare Nostrum il Mare Monstrum, cioè i corridoi umanitari, viene consapevolmente ignorata. Eccoci all’assurdo di milioni di profughi senza via legale per chiedere asilo in Europa. Non si può distinguere chi fugga da persecuzione e morte per discriminazione religiosa, etnica o politica dagli altri, pur sempre disperati ma magari per contesti di miseria. La scelta europea di non aprire corridoi umanitari da Libano, Marocco e Corno d’Africa pone l’Italia al centro di un vortice di paura e odio, con punte diffuse ed esplicitamente razziste. E’ il momento di scelte drammatiche, epocali come i loro presupposti.
Se Bush aveva fallito invadendo l’Iraq non tanto perché fosse sbagliato defenestrare Saddam quanto perché era folle pensarlo senza la minima idea di cosa fare dell’Iraq, con quali soldi ricostruirlo, con quali energie rigenerarlo, nel 2011 è l’ONU, nonostante due voti, a fare questo incredibile errore in Libia. Se tutti corrono a defenestrare Gheddafi nessuno si presenta quando è l’ora di investire in Libia, di ricostruire, di investire, di affiancare. L’Europa soprattutto dà di sé la poco nobile immagine di saper solo sfruttare. E così se Assad è il simbolo vincente degli “antagonisti” Gheddafi diviene il martire dei reazionari e degli antagonisti. Commettere lo stesso tipo di errore ai due capi opposti di un filo consente di farne una matassa non più districabile.
I flussi migratori, che coinvolgono decine di paesi falliti, sconvolgono nell’assenza della più elementare comprensione che vivere in un contesto fallito è un pericolo esiziale. Ma l’Europa non ha modo di preoccuparsi del suo contesto, fingendo di credere che questo sia preoccuparsi dell’interesse nazionale dei suoi membri. In realtà è proprio quell’interesse che si sta ledendo, in nome di calcoli a dir poco miopi.
Se i tumori si espandono gli incendi divampano. E così si arriva a quello logicamente tenuto come l’ultimo passo utile per “salvarci dal neoestremismo”; fare della Libia la nuova Turchia, di Haftar il nuovo Erdogan. Anatolia e Nord Africa diventano i nuovi valli di protezione dai nuovi barbari. Ma per avere il placet di Haftar occorre quello del suo padre-padrone, l’egiziano al-Sisi. Così si è chiuso il caso Regeni, in una notte di metà agosto: ovviamente sull’altare dell’interesse nazionale, quello in gioco nella “decisiva” Libia.
Il disegno di restaurazione ci consegna un’Europa impossibile fortezza, un’opinione pubblica dominata da estremismi inquietanti, da identitarismi disperati. E il fianco sud è in mano a despoti peggiori di quelli che c’erano prima del 2011. La possibilità offerta a tutti dalla Primavera si è trasformata nel nostro inverno. L’Europa sembra rientrata nei libri di storia, e chi si illude di poterla governare non potrà che prendere il volto di chi l’ha condotta all’implosione. Contento lui… Ma il confronto col presente sarà presto e di nuovo incandescente. La vittoria dell’asse khomeinista, che vede ormai consolidarsi il suo disegno di impossessarsi di tutto il Levante arabo, ci metterà a confronto fisico diretto con chi pianifica l’esportazione della sua rivoluzione, giunto ormai sulle sponde del Mediterraneo dopo millenni. Questo progetto va capito, almeno superficialmente, per le sue enormi conseguenze. Usando la storica discriminazione delle comunità arabe sciite, ne militarizza e radicalizza l’appartenenza facendone “l’ala marciante” del progetto persiano, tenendole costantemente sulla soglia della paura, dell’aggressione, dividendo quindi irreversibilmente le società del Levante, affidate a potenti locali che garantiscano “fedeltà”. Questo progetto ha bisogno di scontro permanente e non vivrà senza il difficilissimo transfer di milioni di sunniti da Iraq e Siria e l’altrettanto difficilissimo transfer di milioni di sciiti verso la Siria. Una destabilizzazione permanente per conquistare Baghdad, Damasco, e Beirut a un progetto di conflittualità regionale che punta alla conquista dell’islam a un’ideologia radicale e “rivoluzionaria”. Davvero il ministro Minniti vede la luce alla fine del tunnel?