STORIE USATE

Siegmund Ginzberg

Mescolanze, guerre, sradicamenti.
La maledizione delle terre di mezzo

Per Byron era un eroe. Per Puškin un bieco traditore. Il loro duello a distanza, a colpi di versi, anticipa in qualche modo le narrazioni contrapposte del perché e del per colpa di chi la guerra in Ucraina. L’uno lo celebra come sfortunato campione della libertà. L’altro lo esecra come venduto all’Occidente (nella fattispecie al Re di Svezia Carlo XII che si apprestava a marciare su Mosca). Grande poesia. Con però un paio di pecche. L’una e l’altra versione poetica non hanno molta attinenza con la realtà e i personaggi storici. Trattano delle loro passioni, delle loro perfidie. Non del contesto. L’una e l’altra, infine, ignorano le sofferenze inflitte alla gente, ai poveri cristi che si trovano in mezzo mentre cozzano gli imperi, si battono gli eroi. Peggio: quei magnifici versi si sono spesso prestati a giustificare il sangue versato nelle infelici Terre di mezzo.

Sono trascorsi oltre trecento anni dalla battaglia che si combattè nel 1709 a Poltava, in Ucraina centrale, durante quella che i Russi chiamano la Grande Guerra del Nord. Vinsero gli eserciti dello Zar Pietro. Detto Il Grande perché aveva fatto grande la Russia imparando dall’Occidente, invogliando l’immigrazione di artigiani e uomini di cultura (mentre sotto lo zar attuale si assiste di nuovo ad un esodo dell’intelligenza russa). Furono allora sconfitti gli Svedesi e il loro alleato ucraini, l’etmano dei cosacchi della Zaporižžja, Ivan Mazeppa. Poltava è una delle città dove ancora si combatte. Poltava per la propaganda russa è come dire Kosovo Polje per la Grande Serbia di Milosevič: è un mito terribile, che serve a giustificare ogni atrocità, anche quelle perpetrate su civili inermi. Nel tricentenario gli Ucraini hanno eretto statue e intitolato strade. In Russia invece Mazeppa è stato oggetto di una campagna di vituperi, compresi quelli in versi, con tanto di profezie e ammonimenti minacciosi ai “nuovi Mazeppa” dell’Ucraina a non sfidare la Russia, dell’allora sindaco di Mosca Iurij Lužkov, noto per la brutale repressione delle manifestazioni anti-Putin.

Il Mazeppa di Byron è del 1818. Poltava, la “risposta” di Puškin, è del 1829. Byron è un romantico occidentale. Celebra le passioni d’amore e di libertà. Avrebbe pagato di persona: morì trentaeseienne– non è chiaro se di meningite letargica, trasmessa dalle zanzare o di sepsi seguita al trattamento errato – a Missolungi dove si era avventurato a sostenere la causa dei ribelli greci contro l’oppressione turca. Puškin aveva appena un anno più di Byron quando morì anche lui di sepsi per la ferita riportata nel duello con il barone francese Georges d’Anthès. Pare che la politica quella volta non c’entrasse. Nel poema di Byron, l’etmano dei cosacchi è in fuga, assieme a Carlo di Svezia, dopo la sconfitta a Poltava. Carlo è ferito, si ferma per riposarsi in riva al Dniepr. Mazeppa, ormai vecchio, gli racconta un’avventura della sua gioventù, di quando, paggio presso la Corte del Re di Polonia (“monarca colto […] Egli non faceva guerre, e non acquisiva /nuovi regni, per poi di nuovo perderli”)  si era innamorato. Il padre della fanciulla, per punirlo, l’aveva fatto legare, nudo, sulla groppa di uno stallone. Il destriero, galoppando furiosamente, attraverso steppa, boschi e di rovi e fiumi, lo aveva portato, più morto che vivo, sino nella sua nativa Ucraina. Pressoché l’intero poema è dedicato al tremendo viaggio. Ed era stata l’agonia del giovane Mazeppa a lasciare il segno nella cultura europea del tempo, specie in quella visuale. Il Mazeppa legato al dorso del cavallo dipinto da Géricault è un’icona indelebile, alla pari del Guernica di Picasso e della tremenda foto della famiglia in fuga, padre, madre, figli e cane, ammazzati sul marciapiede alla porte di Kiev.

Il Poltava di Puškin è invece un manifesto politico. Una requisitoria contro un Mazeppa vecchio, laido, corrotto, attaccato al potere che detiene da tempo (non un brillante giovinetto pieno di ideali come in Byron). Un depravato, che seduce una minorenne nobile di Poltava, e se la tiene come mante nel suo castello. Poco ci mancava gli desse pure del drogato. Per vendicarsi, il padre e uno spasimante della ragazza non trovano di meglio che denunciare Mazeppa allo zar a Mosca. Non per le intemperanze e concupiscenze senili, accuse che a quei tempi avrebbero lasciato il tempo che trovano, ma per tradimento. Intrighi segreti coi nemici del Nord (o occidentali che dir si voglia). Mal glie ne incoglie. Lo zar non crede ai delatori, gli fa confessare sotto tortura che le accuse se le sono inventate per vendicarsi di Mazeppa, li fa decapitare. “E intanto, non curandosi della minaccia/ Senza temere le conseguenze,/ Mazeppa porta avanti i suoi intrighi./ Il Gesuita plenipotenziario/ Infiamma il popolo, procurandogli/ Il vacillante trono d’Ucraina./ Come ladri, si radunano nottetempo/A tenere i loro conciliaboli segreti,/ Soppesano i pro e i contro del tradimento,/  Compongono proclami ‘Universali’/ Si scambiano solenni giuramenti sulla testa dello Zar/ E vendono la testa dei vassalli […] Volano lettere in tutte le direzioni:/ Le sue astute minacce arrivano a incitare/ Bakhcisaray [il khan di Crimea] contro lo Zar./Ascolta le sue parole il Re in Varsavia,/ Così come il Pascià in Oçakov,/ Re Carlo [di Svezia] e persino la Zar/ Nessuno sospetta la sua perfidia […]”.

Così, nei versi di Puškin, complotta di vendere il proprio paese allo Straniero, il perfido Mazeppa. Ed è pure un ingrato, perché era stato lo zar a metterlo alla testa dei cosacchi, e non ha dato ascolto a chi lo avvertiva del tradimento. Un infido, perché finge fedeltà allo Zar, sembra addirittura mettere freno agli entusiasmi indipendentisti dei suoi, proprio mentre invece tesse segretamente le fila del cambio di campo. Oltre che della Santa Russia, è un traditore della sua religione (russo-ortodossa), ha come consigliere un gesuita, un agente del Papa e dei Polacchi, che per combinazione si chiama Zalensky (sic!), e ha come cancelliere un politico corrotto che finirà col convertirsi all’islam. Si direbbe Putin che parla di Zelensky. Immaginate se Zelensky (non il gesuita del Seicento, il presidente ebreo dell’Ucraina), fosse pure scappato, e avesse trovato rifugio tra i nemici, come la disinformacija russa aveva cercato di farci credere.

Puškin non dice nulla della vendetta dello zar Pietro per il tradimento e la fuga. Mazeppa, che non erano riusciti a catturare, fu impiccato in effigie. La sua capitale, Baturyn, nell’Ucraina nordorientale, fu rasa al suolo. E gli abitanti furono passati a fil di spada, vecchi, donne e bambini inclusi. Chiunque venisse sospettato di parteggiare per Mazeppa veniva arrestato e giustiziato. Ma ricorda, proprio a suggello del poema, la damnatio memoriae, anzi eterna maledizione, a cui l’etmano “Giuda” era stato condannato dalla Chiesa ortodossa fedele a Mosca: “Da tempo Mazeppa è stato dimenticato/Solo in un sito solenne, consacrato,/ Ogni anno, fino ai nostri giorni/ Risuona nella Cattedrale l’anatema […]”. L’anatema venne ripetuto ogni prima domenica di Quaresima, fino al 1918. E in effetti il Patriarca ortodosso di Mosca Kirill ancora maledice Mazeppa, e con lui tutti gli ortodossi “scismatici”. Se nella guerra tornano immagini da secolo scorso, nel linguaggio religioso tornano concetti addirittura di molti secoli fa: Giuda, Satana, Anticristo, rivolte ai confratelli di fede ortodossa ucraina. Mentre vengono benedetti, in nome della Santa Rus’, quelli che li stanno massacrando. Mission impossible, quella di Francesco di mettere pace, in nome di Dio, tra cristiani che, in nome delle rispettive Chiese, si sparano tra loro.

Grandi poeti, grandi traditori. Chi glie l’ha fatto fare a Puškin di prendersela così violentemente con Mazeppa? L’orgoglio nazionale Gran russo, necessariamente imperiale? Il fatto che un russo non può che schierarsi dalla parte della Russia, anche quando ha torto? Un’astuzia poetica, per farsi perdonare le simpatie per i decabristi che chiedevano una monarchia costituzionale o addirittura la repubblica in Russia, precauzione per niente peregrina visto che poco ci mancò che il poeta finisse male per questo? Poltava in realtà è molto più complesso, ha molti registri, molte voci. Lo stesso Puškin dovette difendersi dall’accusa, rivoltagli anche in Russia, di aver diffamato Mazeppa. Rispose di essersi attenuto ai “fatti storici”. In effetti Mazeppa si alleò col re di Svezia, e con lui scappò a cercare rifugio presso i Turchi. Ma è un fatto storico pure che lo fece in nome di un’Ucraina indipendente dalla Russia.

Le guerre sono sempre state anche guerra di opposte propagande, di miti contrapposti.  Inevitabile la fioritura di leggende, esagerazioni, di bugie. Ascolto in tv quel che dice un altro personaggio, non d’invenzione ma già da leggenda. “I crimini di guerra sarebbero impossibili senza la menzogna che li copre”, dice Zelenski. Anche storici russi hanno di recente “riabilitato” Mazeppa. Sono stati zittiti come “revisionisti”. È risaputo che la storia in Russia è sempre stata terreno estremamente scivoloso. Lì, agli storici di professione hanno in genere preferito gli scrittori che scrivono di storia. Ragione in più per prenderli con le pinze. Persino il Tolstoj di Guerra e pace, che si era documentato così minuziosamente sulle guerre napoleoniche, non è affatto oggettivo.

Il Taras Bulba di Gogol mi ha affascinato sin da quando lo lessi da giovane. In più tarda età un po’ meno. I lettori da più tempo del Foglio forse ricorderanno una mia lenzuolata su queste pagine che era stata titolata sui “Terroristi della Steppa”.  Il cosacco Taras è un eroe puro e duro, senza tempo. Ma non è un uomo di pace, e non è nemmeno un campione dell’indipendenza dell’Ucraina. È nemico giurato dei Polacchi, dei Lituani e degli altri loro alleati “occidentali”. È, specie il Taras Bulba della seconda edizione, un sostenitore sfegatato dello zar di Mosca, e della religione ortodossa contro i cattolici, i protestanti, i tartari musulmani che occupavano la Crimea, i turchi (e contro gli ebrei, disprezzati e irrisi più degli altri).

Quel che non sapevo è che Gogol aveva scritto anche frammenti su Mazeppa, rimasti inediti e sconosciuti prima che la slavista Edyta Bojanowska che li rivelasse nel suo impareggiabile studio su Nicolai Gogol Betweeen Ukrainian and Russian Nationalism (Harvard University Press 2007). I frammenti rivelano un personaggio molto più complesso di quello dei versi di Puškin, e anche di quelli di Byron. Ecco un frammento di pensieri dell’etmano, in forma di monologo interiore: “Secedere? Proclamare l’indipendenza? Opporsi alla terribile forza del despotismo con la forza dell’unanimità, assumersi l’onere di respingerli noi da soli? Ma l’etmano era già molto anziano e mise da parte pensieri che nella sua tempestosa giovinezza avrebbe sposato di slancio. L’autocrate [lo zar di Mosca] era troppo potente, e inoltre era incerto se l’intera nazione [cosacca] si sarebbe armata contro di lui, una nazione che era libera e non sempre pacifica, mentre l’autocrate era in ogni momento in grado di agire senza rispondere a nessuno”. Un Mazeppa politico, uomo di Stato, di un’attualità da brividi.

Taras invece si butta nella mischia d’impeto. Dovesse costargli la vita, quella dei figli, di tutti i suoi. Ciascuno l’ha adattato alle proprie sensibilità. Ho rivisto il Taras Bulba del 1962 interpretato da Yul Brynner. È un’americanata pura, lo ritrae come un simpatico cowboy spaccone della steppa. Poi ho fatto le ore piccole guardando quello di Vladimir Bortko, del 2009, belle le cariche di cavalleria, ma è un filmone di propaganda russa. Senza il vigore dell’Eisenstejn di epoca staliniana. L’esordio, con Taras che incita i suoi tovarisci alla battaglia è una selezione dal testo di Gogol. Poteva essere usato tale e quale da Putin. Non mi restava che consolarmi ascoltando da Youtube lo splendido Taras di Janaček. Il Mazepa di Čajkovskij un’altra volta, se no non finisco più di scrivere questo pezzo. Riprendo a smanettare sul web, tra i notiziari. Mi sento in colpa. Torna l’atroce l’interrogativo: si può parlare ancora di poesia dopo Auschwitz? Mi rispondo: non solo si può, si deve, è necessario.

Taras è completamente immaginario, così come del tutto immaginari sono gli altri personaggi ed eventi del romanzo di Gogol. Non ha nemmeno un preciso riferimento cronologico, se non che la vicenda si svolge in qualche tempo del Seicento.  Potrebbe essere attorno al 1651, quando l’etmano Chmel’nyc’kyi, il grande leader della rivolta cosacca del 1648 ai danni dei Polacchi, tentò di dar vita a una Ucraina indipendente, appoggiandosi ora a Varsavia, ora al Sultano, ora allo Zar russo. Oppure attorno al 1659, quando, dopo anni di guerre tra di loro, Lituani e  Polacchi, che allora controllavano l’Ucraina dei cosacchi, formarono una Confederazione, la Rzeczpospolita (da Res publica), la quale era di enorme fastidio allo zar di Mosca. Potrebbe essere attorno al 1676, quando i Russi erano in guerra con i Turchi e i cosacchi della Zaporižžja avrebbero risposto con una lettera di insulti al Sultano Maometto IV che gli chiedeva di cessare le scorrerie verso Costantinopoli:

“Tu, diavolo turco, maledetto compare e fratello del demonio, servitore di Lucifero stesso. Quale straordinario cavaliere sei, tu che non riesci ad uccidere un riccio col tuo culo nudo? Il diavolo caca e il tuo esercito ingrassa. Non avrai, figlio d’una cagna, dei cristiani sotto di te, non temiamo il tuo esercito e per terra e per mare continueremo a darti battaglia, sia maledetta tua madre.

Tu cuoco di Babilonia, carrettiere di Macedonia, birraio di Gerusalemme, fottitore di capre di Alessandria, porcaro di Alto e Basso Egitto, maiale d’Armenia, ladro infame di Podolia, tartaro, boia, idiota del mondo e dell’altro mondo, nipote del Serpente e piaga nel nostro cazzo. Muso di porco, deretano di giumenta, cane di un macellaio, fronte non battezzata, fottiti tua madre!”. La lettera è inesistente. Ma la scena dei cosacchi che la dettano è stata resa celebre, quindi resa più che reale, dal dipinto ottocentesco di Ilja Repin.

“Fratelli, mostreremo che siamo della stirpe dei cosacchi” recita l’inno ucraino. I cosacchi in realtà non avevano nemmeno un’identità etnica. Erano all’origine una comunità militare che raccoglieva fuggiaschi polacchi, slavi, tartari, magiari, valacchi, turchi. Più che i libri di storia, le fonti di Gogol sono i racconti folkloristici e i canti popolari, i Dumy ucraini, che rappresentano i cosacchi come supereroi in grado di sconfiggere con una mano sola “trecento, seicento, persino novecento nemici tartari”. Fa il paio, verrebbe da dire, col “Fantasma di Kiev”, il pilota ucraino che, nelle prime ore della guerra, col suo Mig-29 avrebbe abbattuto ben sei aerei attaccanti. Bello. Ma (posso dire purtroppo?) è solo fantasia. Così come pura leggenda pare sia la risposta del reparto di marinai ucraini sullo Scoglio dei Serpenti, alle navi da guerra russe che gli intimano di arrendersi.

Confusi? Chi non lo sarebbe? È la storia geopolitica, bellezza! Le terre di mezzo, le zone di confine dove è massimo l’attrito tra i grandi imperi, sono come le faglie telluriche che producono in continuazione tremori sinistri, sciami sismici premonitori, e terremoti catastrofici. Ne offre un’imponente rassegna The Struggle for the Eurasian Borderlands: from the Rise of Early Modern Empires to The End of The First World War di Alfred Rieber (Cambridge University Press 2014). Gli imperi cozzano fra loro, stritolando le terre di mezzo. L’impero russo, quello turco, quello persiano, quello cinese. Un tempo la zona di massima instabilità erano i Balcani. Al punto che la denominazione geografica è sinonimo di caos. Un’altra lunga faglia segue i confini dell’ex impero turco, la chiamano Medio oriente, in realtà si propaga dalle sponde meridionali del Mediterraneo e dall’Arabia fino al Xinjiang, che ai tempi del Grande Gioco tra India britannica, Russia imperiale e Cina veniva chiamato Turkestan cinese. Terra di mezzo per eccellenza è l’Afghanistan. Una passa per Ucraina e dintorni, dove “confinano tutti i confini”.

Terre di sangue le ha definite lo storico dell’Università di Yale Timothy Snyder nel titolo del suo saggio su sviluppi relativamente più recenti, quelli della prima metà del secolo scorso. L’Europa nella morsa di Hitler e Stalin recita il sottotitolo del libro, ripubblicato nella Bur nel 2021. Terre di pogrom, le si potrebbe anche chiamare. Lì è stata inventata una parola di derivazione russa che significa “devastazione”: progrom. Denota i danni collaterali, i saccheggi, gli stupri e i massacri delle minoranze, delle popolazioni “di mezzo”, quelli che vengono stritolati tra i litiganti. I pogrom per antonomasia sono quelli condotti contro le comunità degli ebrei che si erano insediati nella “Zona di residenza” creata da Caterina II, l’immenso ghetto che dal Baltico andava fino al Mar Nero, la culla della cultura yiddish.

Un terribile paradosso è il continuo alternarsi di una certa nostalgia degli imperi (dell’Impero russo, dell’Impero ottomano, dell’Impero asburgico) e di spinte centrifughe, voglia di liberarsi da tutele malsopportate. Gli imperi hanno garantito la convivenza di popoli, etnie, religiosi culture diverse, reprimendo però con mano di ferro ogni sussulto separatista, ogni velleità identitaria, ogni tentativo di lasciare che siano le urne a decidere da che parte stare. Vale anche per democrazie consolidate come il Regno unito di Inghilterra e Scozia, o la più giovane ma ormai salda democrazia spagnola. Le separazioni sono sempre traumatiche, dolorose anche se consensuali e pacifiche come la Brexit. Al tempo stesso è sempre stato lo scontro fra gli imperi, il tentativo o il sospetto che si voglia di portarne via un pezzo a scapito dell’altro a scatenare il Pandemonio che covava sotto il coperchio.

I miei antenati provengono da una di quelle Terre di mezzo, di foreste, steppe sterminate, di grandi fiumi, terre lambite da un mare azzurro profondo, che chiamano Nero. Ne hanno narrato Il Diavolo a Goray di Isaac Bashevis Singer, o La lingua salvata di Elias Canetti. È la terra in cui imperversavano i cosacchi, o gli Hayduk, i banditi del romeno Panait Istrati. A Goray Satana era arrivato a mettere zizzania tra i fedeli del vecchio rabbino e i seguaci fanatici del giudaismo messianico di Sabbatai Zevi (che finirà convertito all’islam). Poi aveva assunto le sembianze dei pogrom perpetrati dai cosacchi al servizio dello Zar. Si trova al confine tra l’attuale Ucraina e la Moldavia, nella Transnistria possibile prossimo obiettivo dei carri russi. Canetti scrive della sua natia Rustuck, sulla riva meridionale del Danubio, che era allora Principato di Bulgaria, e dove “si sentivano parlare sette o otto lingue durante il giorno […] a parte i bulgari […] c’erano molti turchi, sefarditi spagnoli, […] greci, albanesi, armeni, zingari […] i rumeni provenivano dall’altra parte del Danubio […] c’erano anche russi, pochi di numero, è vero”. Ma perché poi si sono messi a scannarsi? Mio nonno stava sulla riva opposta del Danubio, che volta volta era stata provincia turca, avamposto austroungarico, Romania, Moldavia. Mio padre era nato agli inizi del Novecento a Tulcea Costanza. Regno di Romania, dice il certificato di nascita. Erano Ebrei, eshkenaziti, che però avevano conservato la cittadinanza di quando erano stati occupati dai Turchi.

Erano terre spazzate in continuazione da eserciti che andavano a combattere altri eserciti, messe a ferro e fuoco in avanzate e poi ritirate, continuamente sballottate da un impero all’altro. Terre maledette, dove tutti convivevano con tutti gli altri, e dove poi tutti si sono messi a odiare tutti gli altri, e gli odii si sono cristallizzati e incancreniti grumo a grumo. Avevo cercato per anni, quando scrivevo Spie e Zie, di ricostruire il chi e il quando, il per colpa di chi e il percome, e il dove, anche compulsando antichi atlanti, aggiornati libri di storia. E mi ero perso. Perché la storia di quelle terre è stata scritta e riscritta in continuazione, e al seconda del punto di vista di una delle parti, ignorando del tutto quello delle altre. E anche perché da secoli quei confini non sono mai rimasti fermi un attimo, le popolazioni non hanno potuto che raramente tirare il fiato. L’unica cosa chiara, evidente era: guai a a chi si ritrova preso in mezzo ai litiganti. Mio padre era biondo, con occhi grigi, glabro, aveva una faccia da russo. Un ebreo con tratti e geni decisamente slavi, forse cosacchi, imposti da chissà quali violenze, in chissà quale secolo. Mia madre aveva occhi scuri, tratti da gitana, con ascendenze forse arabe, da incrocio coi moriscos. Si erano ritrovati a Istanbul. Da rifugiati, ma con provenienze diverse, e in epoche diverse, separate da secoli. Lui rifugiato dalle foci del Danubio, lei figlia di rifugiata, cinque secoli prima, quando dalla Spagna furono cacciati i sefarditi, e trovarono rifugio e accoglienza presso il Sultano turco. Ho la fuga, lo sradicamento forzoso nel sangue.

 

Quest’articolo è stato pubblicato in origine sul Foglio di sabato 19 e domenica 20 marzo.

Foto: Horace Vernet, “Mazeppa e i lupi”, 1826 (Musée Calvet – Wikimedia Commons)

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