Laggiù dove l’ombra si addensa, mi pare di ricordare che qualcuno avesse legato la giustizia sociale al fatto che a ciascuno venisse garantito quanto richiesto dai suoi bisogni. Ne è passata di acqua sotto i ponti, molte sono state le difficoltà e anche gli errori, a volte terribili, legati al tentativo di chiarire che cosa fossero davvero quei bisogni. Tuttavia sembra rimanere la formulazione più efficace, almeno in negativo, per sottrarsi all’altro paradigma che sta trionfando ai nostri giorni.
Se il luogo, la classe sociale, il colore della pelle, il sesso, l’ambiente, la ricchezza e la cultura dei genitori rappresentano, alla nascita di ogni essere umano, il risultato di quella che Rawls definì lotteria naturale, i talenti con cui si entra nella vita dipendono esclusivamente da fato, fortuna o provvidenza – secondo le preferenze ideali -. Per questo, far dipendere dai bisogni quanto ci si può aspettare dalla società sembra ancora il modo più sicuro per non scegliere invece i meriti, che significa premiare chi già è stato premiato dalla lotteria.
Purtroppo quella ipotesi lontana è stata liquidata dalla storia e oggi viene immediatamente bollata come ideologica, mentre la cosiddetta morte delle ideologie si coniugherebbe al meglio con il paradigma meritocratico, ma è difficile non rendersi conto, proprio in questi anni, quanto si tratti della ideologia più forte che si sia mai conosciuta. Già nel 1958 il sociologo inglese Michael Young in Rise of Meritocracy – che si immagina scritto nel 2033 – dipingeva il destino di una società governata dai pochi che si ritengono giustificati ad esercitare il potere, in quanto meritevoli.
L’impossibile ipotesi che tutto, anche le persone, siano riducibili a dati oggettivi e misurabili consente di far trionfare una disuguaglianza fondata non più su pretese di nobiltà o di diritto divino, ma sulla scienza, rappresentata nelle pagine di Young dal Quoziente Intelligenza – che a un certo punto del libro si scopre poter essere misurato fin dalla fase prenatale – e, ad esempio, nell’università di oggi da gerarchia delle riviste scientifiche, valutazione della qualità della ricerca e bibliometrie varie.
Secondo Young la meritocrazia rende i membri della classe dominante impermeabili alle critiche e garantiti nell’autoriproduzione delle loro posizioni di potere. Per fare un altro esempio legato alla università, l’introduzione della selezione meritocratica grazie al numero chiuso o programmato consente di concorrere alla qualifica di facoltà di eccellenza con conseguente aumento dei finanziamenti, che alzerà progressivamente una pretesa qualità oggettiva e, parallelamente, la disuguaglianza tra chi ha avuto premi diversi dalla lotteria naturale iniziale.
Lascia molto perplessi che oggi l’unica voce in grado di sostenere di fronte al mondo queste cose sia il papa che, ieri, nello stabilimento Ilva di Genova ha saputo dire: La meritocrazia, al di là della buona fede dei tanti che la invocano, sta diventando una legittimazione etica della diseguaglianza. Il nuovo capitalismo tramite la meritocrazia dà una veste morale alla diseguaglianza, perché interpreta i talenti delle persone non come un dono; il talento non è un dono secondo questa interpretazione: è un merito, determinando un sistema di vantaggi e svantaggi cumulativi, come Young aveva scritto: I nuovi arrivati oggi possono davvero credere di avere la moralità dalla propria parte.
Oggi privilegiare uguaglianza o merito dipende probabilmente da diverse sensibilità che faticano a trovare un terreno comune di confronto, ma, secondo Young, il regime fondato sulla meritocrazia genera anche la propria crisi e, trovando finalmente una imprevedibile guida politica, gli emarginati, i non meritevoli, nel 2033 si sollevano in una dura rivolta il cui esito finale l’autore non rivela. Speriamo non si tratti solo di un ennesimo millenarismo legato al bimillenario della Passione.
L'ASINO DI BURIDANO