Pubblicato nel 1941, La topographie légendaire des évangiles en Terre sainte di Maurice Halbawachs – uno dei nomi di maggior spicco della scuola durkheimiana, morto a Buchenwald il 15 marzo del 1945 – rimane una lettura preziosa per quanti vogliano visitare la Terra santa e i luoghi della vita e morte di Gesù non ignari della differenza che esiste tra memoria e storia, e consapevoli dei meccanismi di funzionamento della memoria religiosa. Quel che Halbwachs mostrava con chiarezza, con riferimento a posti come Betlemme, la Via dolorosa, il Monte degli Olivi, Nazareth, il Lago di Teberiade ed altri, è come la topografia dei luoghi santi sia stata il risultato di un lavoro di ricostruzione operato dalla memoria collettiva in cui la conoscenza del passato storico è un elemento solo secondario, se non del tutto inutile, e comunque subordinato ai bisogni dei gruppi cristiani che dal 300 circa presero a ri-costruire la topografia della Terra santa sulla base degli interessi (e dei conflitti) che definivano la loro identità in costruzione. In altri termini, Halbwachs mostrava chiaramente come la religione sia in larga misura un fatto di memoria, e quest’ultima sia sempre l’esito di un processo di costruzione sociale che risponde ai bisogni attuali di un gruppo. Una simile consapevolezza, tuttavia, non toglie nulla all’interesse sociologico che quei siti hanno, esattamente in quanto in essi si fissa la storia e l’identità di un movimento religioso mondiale che, più di duemila anni dopo la nascita di un uomo di cui gli storici ancora sanno dirci poco, non cessa di mostrare su scala globale una straordinaria capacità rigenerativa.
Anzi. Il nesso tra memoria e identità collettiva che Halbwachs enfatizzava nella sua analisi della topografia della Terra santa apre la strada ad una domanda che ne declina da subito la memoria al plurale: quanti e quali cristianesimi hanno lasciato la loro impronta nella topografia leggendaria dei luoghi santi? Se oggi essi sono visitati da milioni di cristiani che portano sulle pendici del Monte degli Olivi o sulle pietre millenarie di Cafarnao e di Gerusalemme, come sulle sponde del lago di Tiberiade o per le strade di Betlemme (a cui si accede con il triste passaggio di un check-point al muro di separazione tra Israele e territori palestinesi) i loro modi anche diversissimi di essere cristiani, quale cristianesimo o milieu religioso restituiscono quei luoghi? Se si prende come indicatore della memoria sedimentata nei luoghi santi la loro estetica, si potrebbe forse azzardare l’ipotesi secondo cui essi fanno risuonare in modo forte due sensibilità religiose, di una terza rivelano una certa ‘estraneità’ rispetto al contesto, e ne lasciano costernata e muta una quarta. Offro l’ipotesi alla falsificazione di quanti, pellegrini o no, vogliano guardare ad essi da questa ottica.
Le due memorie che la topografia leggendaria della Terra santa fa risuonare sono quelle di un cristianesimo pre-paolino e non ancora separato dalla sua matrice ebraica, da un lato, e quella del cristianesimo ortodosso, dall’altra. Di esse si sente una forte eco. Lo scenario in cui Gesù incontra i primi discepoli – Pietro, Giacomo, Giovanni e Matteo – è una fiorente città ebraica, Cafarnao, nella cui sinagoga (su cui nel 300 è stata costruita quella in pietra calcarea oggi visibile, a sua volta edificata con lo stile tipico delle basiliche) – Gesù avrebbe pregato e predicato, e nei dintorni della quale avrebbe compiuto molti miracoli, fino però a maledirne gli abitanti (Matteo 11: 23) per la loro incredulità. Che il Gesù storico sia stato un predicatore e taumaturgo errante, un leader politico o un profeta apocalittico (tre dei quattro principali modelli d’interpretazione del Gesù storico), il setting della sua azione e del suo messaggio – certamente carico di un senso eccedente tutti i movimenti propri dell’ebraismo del tempo (zeloti, farisei, esseni) o quello delle figure di carismatici e apocalittici – rimane inestricabile dal sapore di quel fazzoletto di terra e spazio geografico che era la Palestina, sebbene – diremmo oggi – essa fosse già assai ‘interculturale’. Per quanto ‘virtuoso dell’improvvisazione’ che non si lasciava incasellare in nessuno dei movimenti del tempo (cfr. Enzo Pace, Il carisma, la fede, la Chiesa. Introduzione alla sociologia del cristianesimo, Carocci, 2012), la memoria di molti luoghi di Terra santa (di cui Cafarnao è solo un esempio) parla a voce alta se non di un ‘Gesù kosher’ (è il titolo di un recente volume di Rabbi Shmuley Boteach) certamente quanto meno di un Gesù che “non crea una nuova religione, in senso stretto, ma esercita un potere di comunicazione che lascia immaginare un possibile altro mondo di significati rispetto a quelli che circolavano nell’ambiente” ( p. 57), ai quali rimane però fortemente ancorato.
La seconda memoria che risuona in modo potente è quella del cristianesimo ortodosso. Non c’è quasi luogo santo in cui il segno della liturgia bizantina, con il suo “fasto ieratico, il suo splendore insieme rituale e artistico” (Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, Vol. III, p. 68), sia impresso con forza sovrabbondante quella di qualsiasi altra memoria. Ma ancora più interessante è che la memoria ortodossa apre anche ad una dimensione del cristianesimo a cui siamo ormai poco abituati, o che rischia di essere declinata in chiave ‘marketing new age’, ossia quella mitica. Forse, anzi, si tratta della memoria più forte, quella che colpisce maggiormente. Le icone, ad esempio, che punteggiano molti dei luoghi santi a Betlemme come a Gerusalemme, non solo riattualizzano l’illud tempus prodigioso, in cui Cristo, la Vergine e gli Apostoli erano sulla terra, ma rendono anche possibile la comunicazione tra il Cielo e la Terra, facendo dei luoghi santi una immagine del Cosmo e reinscrivendo la storia di Gesù, morte e resurrezione, entro i grandi schemi archetipici propri di tutte le principali tradizioni religiose (cfr. Nicoletta Antonello, Mito, simbolo e rito nel cristianesimo). Non a caso, si tratta della lettura del cristianesimo prediletta da figure come Eliade e Jung, di cui si trova effettivamente giustificata traccia accanto alle memorie di un cristianesimo non ancora formato come religione e strettamente legato alla sua matrice ebraica.
Una terza memoria suona invece quasi giustapposta, estranea al contesto e al tessuto storico, ma al tempo stesso priva di aperture o slanci a-temporali come quelli di un cristianesimo mitico che echeggia ancora in quella ortodossa. Si tratta della memoria del cristianesimo latino, cattolico-romano. Molti dei luoghi affidati alla Custodia di Terra Santa (un esempio, la rinnovata chiesa di Santa Caterina a Betlemme, parte del complesso della Chiesa della Natività, molto cara ai francescani), sembrano dire che il cristianesimo latino è invenzione frutto di un processo talmente lungo e complesso che con le radici della Palestina ha perso ormai ogni contatto. C’è, in virtù della sua ambizione universalistica, per la sua pretesa di incarnare il vero messaggio del nazareno, laddove in realtà appare solo una memoria estranea e particolarissima, in una terra in cui se non sono le sinagoghe sono i canti dei muezzin a rappresentare la cifra del paesaggio religioso dato per scontato.
Per finire c’è una memoria muta, o per meglio dire introvabile. È quella del cristianesimo protestante storico, e di tutte quelle forme di cristianesimo intimistico e allergico a sacro, rito e mito. L’effetto che possano fare i luoghi di terra santa a chi vive il cristianesimo come un fatto di ‘sola fide’ immagino sia prossimo alla ripulsa per l’idolatria o l’incantamento primitivo del mondo. In effetti, quel cristianesimo – nonostante il suo richiamo alle origini – non ha – salvo rare eccezioni – una casa vera e propria nelle memorie di Terra santa, se non molto tardiva. Ben diverso, naturalmente, il discorso relativamente al cristianesimo pentecostale, che non solo può far valere un suo peculiare ‘ritorno alle origini’, ma che non prova nessun imbarazzo di fronte alle forme espressive e di culto del carisma. Il cristianesimo pentecostale non ha forse una sua memoria consolidata in Terra santa, ma mostra una straordinaria capacità di appropriazione di ogni altra forma di memoria, entusiasticamente messa al servizio del culto carismatico.
Probabilmente si tratta di osservazioni un po’ troppo impressionistiche e facilmente ‘falsificabili’ (me ne scuso). Tuttavia, se ne potrebbe forse ricavare se non una spia, ulteriore, sullo stato di salute dei diversi cristianesimi, quanto meno un (sempre salutare) effetto di ‘incremento di riflessività’ rispetto a quelle forme di cristianesimo che possono apparire o più ‘naturali’ (perché in questo angolo di mondo parte del senso comune) o più in sintonia con un certo sentire modernista, ossia quella cattolica e quella protestante storica. Viste da là, si direbbe timide e in affanno rispetto a cristianesimi carismatici o cosmici.