Non era simpatico, Mario Monicelli, o, almeno, faceva di tutto per non apparire tale. Burbero, controcorrente, sobrio, solitario fino a non coabitare con Chiara Rapaccini (l’artista RAP), l’ultima compagna di quarant’anni più giovane. Sempre eretico in politica e totalmente agnostico, mai pentito e orgoglioso della testarda lontananza dalle figlie e dai nipoti. Un «maledetto toscano» per dirla con Malaparte, sebbene fosse nato a Roma e non a Viareggio, come a lungo si ritenne senza che lui smentisse, anzi. Alla Rapaccini aveva suggerito qualche epigrafe per la sua tomba, tipo «Muoiono solo gli stronzi» e – sublime! – «Non andò mai alle Seychelles».
Era figlio di un intellettuale raffinato, il drammaturgo e direttore dell’«Avanti!» Tommaso Monicelli, che si tolse la vita con una revolverata nel 1946 (a certi destini non si sfugge) e Mario confidava di aver pianto l’ultima volta per la morte del padre. Ancora prima di ottenere nel 1942 la laurea in Storia e Filosofia a Pisa (non proprio facile facile come una «tre» più «due» di oggi), aveva cominciato col giornalismo culturale nella discreta «fronda» milanese al fascismo degli anni Trenta del ‘900. I sodali di Mario Monicelli, nella redazione di una rivista tanto in itinere da chiamarsi «Camminare», erano l’editore e scrittore Alberto Mondadori (figlio di Arnoldo e cugino di Monicelli) che ai funerali nel 1976 volle un’unica bandiera rossa per ricordare l’impegno di una vita; il giovane maestro Enzo Paci col suo esistenzialismo imperniato sul «negativo» come opportunità; il filosofo Remo Cantoni; il poeta Vittorio Sereni; il futuro collega di set Alberto Lattuada. Uomini d’altri tempi e d’altra tempra, consapevoli dei propri talenti come dei propri limiti.
Intervistato da Curzio Maltese per «MicroMega» (n. 7/2006), Monicelli argomentò: «Oggi tutti i ragazzi vogliono occuparsi solo di cinema. Credono di potersi divertire dedicandosi a un’attività che non richiede molto studio e fatica. Ormai la cultura è identificata con il cinema. E questo è vergognoso… A me piaceva Flaubert, avrei voluto scrivere come Dostoevskij. Mi sono accorto però abbastanza rapidamente – perché non sono del tutto stupido – che era meglio abbandonare questa ambizione. E ho ripiegato sul cinema, che comunque mi piaceva».
Cinque anni fa, nel festival del commiato dopo il suicidio, la dichiarazione più autentica fu forse quella di Marco Bellocchio: «La forza di Monicelli era nella sua cattiveria, ovvero nel suo genio, nella fantasia che sforava quasi nel qualunquismo». A 95 anni, lucidissimo, si tolse la vita come Ernest Hemingway, Primo Levi e Franco Lucentini. «Che ci volete fare: ma io so’ io, e voi nun siete un cazzo» dice Alberto Sordi, protagonista di Il marchese del Grillo. Lo stesso attore, in coppia con Vittorio Gassman, in La grande guerra si fa fucilare dagli austriaci pur di non tradire il suo esercito, urlando di essere un vigliacco. Codardia sublimata in eroismo: praticamente, l’Italia, la nostra eterna commedia rinverdita da Mario Monicelli. E poi? «Un po’ di rispetto, è un cadavere morto!» (Totò e Carolina).