LA BELLA CONFUSIONE

Oscar Iarussi

Giornalista e saggista.

Marguerite mon amour. Il romanzo di Sandra Petrignani dedicato alla Duras

Marguerite mon amour. Ovvero, «la vita è un romanzo», per dirla con un altro titolo di Alain Resnais, il quale si rivelò al grande pubblico con uno strepitoso film  nel 1959, Hiroshima mon amour, sceneggiato dall’amica scrittrice Marguerite Duras. Protagonista una coppia: lei è un’attrice francese, lui un architetto giapponese, uniti dalla passione e divisi dai ricordi, sullo sfondo dell’incubo dell’esplosione nucleare. Un amore. Per Duras l’amore è sfida al nulla, impossibile ma necessaria. L’amore è un farmaco, sostanza che medica seppur avvelena, secondo l’etimo greco. L’amore è lo specchio in cui riconoscersi e perdersi spesso coincidono.

Il centenario della Duras, che nacque nei pressi di Saigon il 4 aprile 1914 nell’allora colonia francese della Cocincina e morì a Parigi nel ’96, in questi mesi viene celebrato in Francia da dibattiti, proiezioni dei suoi numerosi film (diciannove le regie), riedizioni varie fra cui il racconto per bambini Ah! Ernesto riproposto dall’editore Thierry Magnier che vi ha aggiunto un saggio di proprio pugno. È mancata, si direbbe, una retrospettiva all’altezza di una leggenda vivente che si consegnò alla scrittura come a una perenne voluttà: Marguerite, L’amante per eccellenza, titolo del suo libro più popolare (1984), da cui fu tratto l’omonimo film di Annaud. Nondimeno, ella fu partecipe dei tumulti del secolo, dalla Resistenza al ’68, impegnata nelle lotte a dispetto dell’espulsione dal Partito comunista francese che nel 1950 l’accusò di essere «puttana» e «ninfomane». In Italia sono da poco apparse due sceneggiature della Duras, Agatha e Il camion, nel volume La ragazza del cinema edito da Del Vecchio e  introdotto da Sandra Petrignani. Ormai quasi introvabile è la «storica» raccolta di riflessioni sulla settima arte affidate ai «Cahiers du Cinéma» nel numero del giugno 1980, dal titolo Gli occhi verdi, tradotta per i tipi della Shake nel 2000.

Marguerite Donnadieu mutuò il nome d’arte dal villaggio della regione Lot-et-Garonne in cui erano le radici paterne: Duras, appunto. E dal padre Henri, scomparso appena cinquantenne, ma soprattutto dall’amata/odiata madre Marie Legrand, prende le mosse l’omaggio più vivido alla scrittrice, che forse solo una «straniera» poteva concepire. Perché Marguerite era in fondo straniera a tutto e a tutti nel magma di una biografia ricca come poche altre di incontri straordinari, di autentiche avventure e di amori talmente intensi che ne basterebbe uno per alludere all’ineffabile promessa contro la morte rinnovata in ogni amplesso. Il libro s’intitola semplicemente Marguerite e ne è autrice la stessa Petrignani (Neri Pozza ed., p. 212, euro 16,00).

Viaggiatrice e biografa appassionata, Petrignani non era riuscita a inserire Duras nella raccolta La scrittrice non abita qui, nel quale, una dozzina di anni fa, esplorava le case-museo di alcune protagoniste letterarie novecentesche, da Woolf a Deledda e a Yourcenar. Rimedia adesso anche grazie a una serie di incontri fortuiti, dei quali testimonia in appendice (sempre che le coincidenze esistano e non siano invece degli snodi dell’inconscio). Marguerite è una biografia sotto forma di romanzo; invero, è un romanzo tout court da cui il lettore totalmente a digiuno della Duras potrà essere conquistato non meno del cultore della scrittrice di Una diga sul Pacifico, Il viceconsole, Giornate intere fra gli alberi, India Song e di tanti altri racconti più o meno famosi.

Il «gioco» della Petrignani è raffinato, giacché l’anelito autobiografico è sotteso e talora manifesto in molte opere dell’eterna ragazza minuta e conturbante, con grandi occhi, vaghi tratti orientali e una pelle serica irrorata, diceva lei, dalle abbondanti piogge asiatiche. Romanzare la Duras, attingendo a citazioni virgolettate o celate nel testo, corrisponde perciò a un corpo a corpo dolce e feroce, struggente, con una donna che soffrì moltissimo, almeno quanto sedusse e scrisse. «E com’è importante lo sguardo sulle cose quando si scrive. Ha scritto in prima persona, ha scritto in terza persona. Deve scrivere come in uno specchio, guardandosi vivere. Lo farà a ogni costo, anche se Robert Antelme e Dionys Mascolo continueranno a bacchettarla sulle dita, a scuoterle l’indice davanti al naso, a romperle le scatole con le loro critiche o la loro condiscendenza. Ma è il loro modo di stare al mondo, non ci si può fare niente. E il mondo è diviso in uomini e donne, e lei è una donna».

Antelme è lo scrittore di L’espèce humaine sopravvissuto all’Olocausto, che Duras aveva sposato nel 1939. Mascolo l’altro scrittore ed editor di Gallimard che nel 1947 le dette un figlio, Jean detto «Outa». Marguerite convive a lungo con entrambi, anche quando l’uno e l’altro la tradiscono e lei puntualmente li tradisce, in un appartamento parigino di rue Saint-Benoit, che diventa cuore pulsante della cultura e della politica a cavallo fra l’occupazione tedesca e la liberazione, ben prima della stagione esistenzialista di Sartre e compagnia bella nei caffè di Saint-Germain-des-Prés. In quelle stanze e nelle strade e nei teatri dell’epoca si affacciano il futuro presidente Mitterrand grazie al quale Antelme, cadaverico nella Dachau appena raggiunta dagli americani, riuscirà a essere curato in tempo e a salvarsi. È lo stesso Antelme che, buttato fuori a sua volta dal Pcf filosovietico la cui militanza gli era costata la deportazione nel lager nazista, chiosa: «Il comunismo ha creato un nuovo tipo di stronzo». Gli amici della Duras si chiamano Morin, Lacan, Sonia Orwell (sposa di George), Beckett, Elio e Ginetta Vittorini. Ma l’elenco dei nomi si allunga nelle varie dimore e nei viaggi. Dalla proustiana Trouville in Normandia alla mediterranea Saint-Tropez, dall’Italia al Vietnam, all’America, in ordine sparso tra le pagine della Petrignani occhieggiano i nomi di Resnais, Godard, Renaud, De Beauvoir, Moravia, Pompidou, Blanchot, Moreau, Bardot, Depardieu…

Scrittori, cineasti, politici, psicoanalisti coronano la vita di Marguerite. Lei però «resta fedele al senso di estraneità alla vita che avverte correrle sottopelle parallelo agli entusiasmi». La sua idiosincrasia ha origini lontane: nell’infanzia indocinese non nutrita a sufficienza dall’amore della mamma Marie. Ex insegnante e vedova indomita nella piantagione di riso ottenuta in Cambogia, Marie le preferì sempre i fratelli (uno morto giovane, l’altro assai viziato). Neppure l’alcol, i successi e i giovani amanti di Duras, tanti, fino a Yann Andréa che le stette al fianco negli ultimi anni, riusciranno mai a sanare la ferita. «Non c’è nessun ultimo bacio», quando è mancato il primo. Inconsolabile Marguerite, come certe vite. Un libro da non perdere.

Articolo apparso sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” del 29 maggio 2014

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