Ma perché Marino Sinibaldi si presta a un libro-intervista? Il testo s’intitola Un millimetro in là. Intervista sulla cultura, e, a cura di Giorgio Zanchini, è appena uscito nei Saggi Tascabili Laterza che brevettarono in Italia questo genere editoriale a metà degli anni Settanta del secolo scorso, con volumi ormai storici di Colletti, De Felice, Napolitano, Amendola, Andreotti e Nenni. Non v’è forse il rischio di farsi monumentare anzitempo? Sinibaldi ha 60 anni, ex bibliotecario, saggista, è giornalista e direttore di Radio3 Rai per cui ha ideato Fahrenheit nel 1999 e l’ha condotta. La trasmissione pomeridiana di libri e idee è la punta di diamante, insieme alla mattutina Pagina 3, del «Terzo Programma», come ancora lo chiamano molti dei suoi adepti: una tribù che armeggia sulle modulazioni di frequenza in auto o negli hotel alla ricerca della qualità altrove perduta.
Troppo giovane per «fare il ‘68», Sinibaldi fu invece partecipe, nelle turbolente stagioni successive, dell’esperienza di Lotta continua e poi protagonista/cronista dello Strano movimento di strani studenti sbocciato nel ’77 degli «indiani metropolitani» e dell’Autonomia operaia, come s’intitolava un agile saggio che scrisse con Lerner e Manconi per Feltrinelli. Egli è insomma un critico militante nel campo della sinistra, caratterizzato da una certa propensione all’«eresia», al gusto della minoranza non settaria, alla battaglia delle idee più che allo scontro delle ideologie. Dimensioni coltivate nelle riviste di Goffredo Fofi cui collaborò attivamente, da «Ombre rosse» a «Linea d’ombra» e a «La terra vista dalla luna». Oggi Sinibaldi è anche presidente del Teatro di Roma e animatore di alcuni festival letterari. Va bene, ma non era un po’ presto per farsi intervistare? La risposta serpeggia lungo il libro e infine viene esplicitata a mo’ di postilla a un elogio dell’oralità che sarebbe piaciuto, crediamo, al Walter Benjamin dei Radiodrammi (tutto torna). Verba volant, per fortuna! Sì, la parola permetterebbe la costante mediazione cui il Nostro tiene molto, inibita invece alla «staticità» della pagina. Sostiene Sinibaldi: «Fare cultura è immaginarsi come l’anello di una catena, come un albero di trasmissione che ascolta, riceve pensieri, a volte li estorce e poi li trasmette […] Per trasmettere occorrono libri e parole, immagini e suoni. E in fondo ho una tale reverenza per la pagina scritta che se questo fosse un vero libro mi peserebbero certe approssimazioni che sono proprie dell’oralità e che anzi la arricchiscono. Dobbiamo sperare nel lettore indulgente, che magari leggerà queste domande e risposte ad alta voce e si immedesimerà nella conversazione».
La forma del libro-intervista è provvida nell’illuminare problemi, opportunità, contraddizioni, desideri, nessi, pensieri, vizi privati e pubbliche virtù (o viceversa) della cultura ai tempi di Internet. Un millimetro in là lo fa con acume e con umiltà, vivacemente e nitidamente. Il titolo si riferisce appunto alla modestia del cambiamento rispetto all’impegno, allo sforzo, alla fatica del mettere sempre tutto in discussione: il proprio orizzonte, le generazioni precedenti e a volte pure le successive (la vecchia questione padri-figli oggi riserva aspetti inediti ai poveri padri). Il «lavoro culturale», per dirla con Bianciardi, bene che vada produce trasformazioni quasi impercettibili o «onde millimetriche» nel gergo della radio.
Nella trama dialogica, scandita con efficacia dalle domande di Zanchini, affiora un’idea di permanenza del tempo pur in tempi di tumultuoso cambiamento, che fu cara a Carlo Levi. In altri termini, Sinibaldi accorda la stessa importanza alla tradizione (la lettura, la scuola, la partecipazione alla vita pubblica) e all’innovazione (la rete, i social network, la mutazione antropologica in atto). Non rimpiange il passato e non demonizza il presente. Rispetto ai mass media, secondo lo schema invero un po’ invecchiato di Umberto Eco, non è un «apocalittico» mentre cerca di essere un «integrato» sobrio, vigile e critico. Si tratta di cogliere i vantaggi della perenne «connessione» cui siamo sottesi, di mettere in contatto competenze, conoscenze, pratiche di vita e gusti fino a ieri talora destinati al dimenticatoio o all’abiura. Vale il caso di scuola dell’adolescente appassionato di manga, i fumetti giapponesi, in un piccolo paese nel cui unico bar tutti parlano soltanto di calcio. Un tempo sarebbe stato uno sfigato, oggi magari diventa un’autorità in materia sul web. D’altro canto, l’impeto «barbarico» delle tecnologie e dei nativi digitali messo in luce da un saggio di Baricco, non sempre corrisponde a bisogni collettivi colti sul nascere; a volte li suscita artificialmente e allora andrebbe interpretato nei termini del marketing che gli sono propri.
Ovviamente alla logica ferrea della vendita e del profitto non sfuggono i mass media tradizionali. In primis la televisione, di cui nel libro si evoca la capacità di rinverdire gli umori libertari del ’68, sicché il ventennio berlusconiano («più sogni per tutti») è in fondo un erede dell’anelito rivoluzionario studentesco, vincente almeno nei costumi. È la stessa televisione che conserva il primato di consensi, nonostante la crisi delle reti generaliste e il diffondersi di Facebook e di Twitter, dove però tutti parlano di Tv! Sinibaldi, invece, non spinge lo sguardo fino a taluni giornali e case editrici, che furono bandiere (più o meno rosse) dell’«impegno», oggi banditori del senso/luogo comune «de sinistra» e delle sue molteplici figurine mercantili.
Di Un millimetro in là restano infine due o tre cose ben raccontate e sulle quali continuare a riflettere, come si addice al «vero libro» che in effetti è. Eccole. L’importanza del sapere soprattutto per chi non nasce ricco, al pari dello stesso Sinibaldi cresciuto in una casa senza tanti libri in una borgata romana. La diffusione del sapere, la divulgazione, la condivisione di letture, visioni, esperienze come modalità di un socialismo riformista dal cuore antico eppure modernissimo (da Andrea Costa a Richard Sennett). Il rilievo politico dei mediatori – i giornalisti, per esempio – nel suscitare le domande e ottenere delle risposte più argomentate di un post o di un tweet. Già, a volte 140 caratteri non bastano a colmare un millimetro.
Articolo pubblicato sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” del 13 maggio 2014
Dell’intervista evidenzierei la frase [pag 88] … “… avremmo bisogno di users esigenti, ricchi (di domande prima che di denaro) e produttivi.” …
Perché “users” invece di “utenti”?
Come si fa a diventare “utenti della cultura” se gli operatori culturali usano un linguaggio sempre più esoterico?
Qualcuno ricorda come si diventò utenti della “computer science”, prima ancora che le università offrissero corsi di laurea in informatica?
E se, per poter diventare utenti della cultura, fosse necessario un “salto quantico”, che titolo si dovrebbe dare al libro che contiene l’intervista?