“Com’è triste e volgare oggi la Dolce Vita”, recitano i titoli degli articoli di costume alla vigilia dell’uscita di La grande bellezza di Paolo Sorrentino, unico film italiano in concorso al Festival di Cannes il 21 maggio e subito dopo nelle nostre sale. Si perpetua così il cinquantennale equivoco sul titolo felliniano del 1960, di cui sfuggì l’ironia. “Gli anni di via Veneto”, ricorda Alberto Arbasino, erano già finiti quando Fellini batte il primo ciak; invece la proiezione nel tempo di quel glamour “de noantri” giunge fino a noi con la forza di una rimozione. Infatti di rado c’è stata la disponibilità a cogliere quanto era e resta evidente nel film: un punto di vista disincantato e compassionevole sull’Italia che crede al miracolo economico, confondendolo qua e là con la corte dei miracoli. E’ l’Italia che sta già piegando il sacro al profano, ovvero la fede popolare alla spettacolazione della Tv, come Fellini mostra nella magnifica sequenza dei bambini che vedono la Madonna in La dolce vita. Un’Italia in bilico sul proprio stesso mito: euforica per celare la depressione; eccitata da Anita Ekberg negli intervalli della malinconia; allucinata e visionaria, tuttavia miope e strabica, se non proprio cieca. E’ la ciclotimia italiana, l’alternanza umorale colta nel mosaico felliniano che presagisce uno spleen ancora lungi dal manifestarsi nel tessuto sociale, svela le ombre del boom e racconta un mondo sull’orlo della “stupidità delittuosa della televisione” di cui avrebbe scritto Pasolini.
Ed è lì, a quel nodo e a quello snodo, che non a caso “tornano” i registi italiani interessati al racconto o alla satira dei costumi, da ultimo degenerati ben di là dalla fantasia (basti pensare al grottesco in politica di “er Batman” e delle feste in peplo). Nello sguardo sulla “dolce vita” si coniugano distacco e partecipazione, osservazione e parodia, cronaca ed elegia, atrabile e barlumi di speranza. E quello sguardo si va rivelando, oltretutto, matrice e culla di visioni finalmente libere dalla malintesa “nostalgia” che per decenni si attribuì al Riminese solo perché il suo impegno non corrispondeva all’engagement ideologico. Solo l’anno scorso a Cannes, Reality di Matteo Garrone rifletteva sul tragico groviglio tra realtà e finzione, ricordando senza mezzi termini La dolce vita a cominciare dalla fluidità aerea del prologo, memore del Cristo appeso all’elicottero dell’incipit felliniano.
La grande bellezza di Sorrentino, con Toni Servillo protagonista, s’annuncia a sua volta come uno stralcio dell’allegra depressione di un’Italia tanto versata per gli ossimori da mandarne uno al governo – “Mai con Berlusconi”, “Pronto, Berlusconi?” –, non prima di essersi costretta a una bimestrale pausa di irriflessione post voto. Un film popolato di parvenu, politici, malavitosi, attori, prelati, intellettuali, turisti giapponesi e belle signore nel labirinto della Roma matrigna e mignotta (sì, ancora Fellini). Servillo è Jep Gambardella, scrittore sulla soglia dei 65 anni, esodato dalla vita, flâneur in giacca rossa nei salotti capitolini o fra i resti dell’Acquedotto Claudio sull’Appia antica cara ai primi atti del Dopostoria pasoliniano.
Intanto Ettore Scola è al lavoro per un film-omaggio a Fellini dal titolo Che strano chiamarsi Federico: di scena le memorie autobiografiche del ragazzo che in provincia leggeva “Il Marc’Aurelio” di Marchesi, Maccari e dello stesso Fellini appena arrivato a Roma. Mentre nella commedia Mi rifaccio vivo di Sergio Rubini – il quale ha lo stesso cognome di Marcello Rubini (Mastroianni) in La dolce vita e interpretò il giovane Federico in Intervista (1987) – la soglia dell’Aldilà riserva un che di termale memore di 8 ½. “Non ho nulla da dire, ma voglio dirlo lo stesso”, era il mantra del regista in crisi Guido Anselmi (Mastroianni) nel capolavoro felliniano del 1963. Mezzo secolo dopo e a vent’anni dalla morte di Fellini, l’Italia si specchia in quella frase.