LA BELLA CONFUSIONE

Oscar Iarussi

Giornalista e saggista.

L’Italia in luce alle frontiere del Nulla. Note sul Leopardi di Martone

“I fanciulli trovano il tutto nel nulla, gli uomini il nulla nel tutto”. E’ un frammento dello Zibaldone di Giacomo Leopardi, protagonista di Il giovane favoloso (così definito in un passo di Anna Maria Ortese), terzo e ultimo film italiano in concorso, molto applaudito ieri alla Mostra di Venezia e che sarà nelle sale a metà ottobre. Lo ha diretto Mario Martone, firmandone la sceneggiatura insieme alla moglie Ippolita di Majo, ma meglio sarebbe dire che lo ha “vissuto”, preparato per anni con il rigore e la passione che sono propri del cinquantenne regista partenopeo sia in teatro sia al cinema, da Morte di un matematico napoletano a Noi credevamo, il cui successo – da molti inatteso – prese le mosse quattro anni fa giusto dal Lido veneziano. Non meno “carnale”, lungo il confine sempre rischioso dell’immedesimazione, risulta la prova di Elio Germano. Il giovane attore ingaggia un corpo a corpo che esula dalla mera interpretazione e dà vita alla performance di un Leopardi gibboso e cagionevole fin dalla tenera età, ma anche represso ed esplosivo, contenuto e libertario, lirico e filosofico. Un “nanerottolo”, come lo sfottevano a Napoli, eppure un gigante.

Mario Martone (a sinistra) con Elio Germano

Mario Martone (a sinistra) con Elio Germano

Altrove trovate la recensione del film. A noi preme, a caldo, provare a segnalare il complesso rapporto fra “tutto” e “nulla” che vibra nella vita e nelle opere di Leopardi. E’ una dialettica interiore rivisitata con efficacia in Il giovane favoloso, dall’infanzia agiata e segnata dallo studio in quel di Recanati sotto lo sguardo severo del padre conte Monaldo, il “tiranno buono” cui è difficile ribellarsi (ha scritto Elio Gioanola), alla fuga verso Firenze e Roma, all’approdo a Napoli sempre con l’amico fraterno Antonio Ranieri (Michele Riondino). Fino alla morte nel 1837 ad appena 39 anni nella città vesuviana, dove Giacomo è sepolto.

Martone contribuisce a restituire Leopardi per quel che è: un nostro contemporaneo. Perché l’infelicità personale, con licenza del secolo ”superbo e sciocco” (il XIX come il XXI?), è elaborata a mo’ di rifiuto del delirio di onnipotenza della modernità e della cultura con la sua presunzione di dominare la natura. Quanto è vana la pretesa dell’uomo di iscrivere le stelle fra le masserizie, si legge nelle Operette morali (“Dialogo di un folletto e di uno gnomo”). E in una stagione in cui si ciancia tutti i giorni di ottimismo e pessimismo, giova evocare l’amara ironia della Ginestra circa “le magnifiche sorti e progressive”. Per quella radicale e tenace malinconia che secondo gli studiosi è la materia prima del suo filosofare (un “gufo” ante litteram), Giacomo Leopardi pagò dei prezzi altissimi, come si vede nel film: non vinse i premi, si alienò delle amicizie, fu reietto dai salotti letterari. Conquistato dal mentore Pietro Giordani all’“italianismo”, la pulsione risorgimentale invisa al padre Monaldo (le Marche erano pur sempre nello Stato pontificio), Leopardi restò tuttavia persuaso dell’impossibilità di concepire “masse felici composte da individui infelici”. Egli era dunque controtempo nel tumulto dell’Ottocento in odor di socialismo, sebbene la leopardiana “social catena” possa proiettare “oltre il nulla” e costituire un antidoto alla disperazione (Franco Cassano, Laterza 2003).

V’è qualcosa di neppure tanto segreto che lega Il giovane favoloso a Noi credevamo, configurando i due film come un dittico sull’Ottocento e la nascita di una nazione. L’identità italiana, fin da Dante, è più letteraria che politica. Leopardi scorre in tale flusso negli anni decisivi che preludono all’Unità, sbatte contro le rive della vita pubblica, contribuendo con ciò a definirle. L’Italia non è solo Cavour, Garibaldi, Mazzini con le contraddizioni messe in luce in Noi credevamo, l’Italia sta nell’“Io dubitai” di Leopardi, nel suo elogio della scepsi quale unica provvisoria verità. “Solo chi dubita, sa”. E’ il Leopardi dell’assenza dalla Storia che lampeggia – e che amiamo – nell’opera di Martone. E’ un poeta e pensatore quasi zen per l’esperienza e la sfida della contemplazione: “Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai / Silenziosa luna? / Sorgi la sera, e vai / Contemplando i deserti; indi ti posi”.

Ritratto di Giacomo Leopardi - Olio su tela, sec. XIX, scuola marchigiana.

Ritratto di Giacomo Leopardi – Olio su tela, sec. XIX, scuola marchigiana.

Tra ascesi e rivolta, il “giovane favoloso” fa l’Italia portandoci oltre il paese delle maschere, dei campanili e dell’eterna commedia grottesca. Oltre la politica. Grazie a lui l’inazione diventa essenziale alle frontiere del Nulla concesse solo ai temerari, come sulle pendici del vulcano in eruzione. D’altronde, l’aforisma assorto o caustico, la nota autobiografica, la traduzione del frammento, il lacerto dello Zibaldone è un carattere che spesso dimentichiamo di poter giocare nella comparazione letteraria europea.

Nel film la colonna sonora del tedesco Apparat, alias Sascha Ring, alterna ritmi alla Sigur Rós con le musiche di Rossini prediletto da Martone, mentre una lucciola viene avvistata e subito uccisa da alcuni giovani a Recanati. E lì pensi che solo alcuni poeti sono necessari. Fra un paio di giorni a Venezia tocca al Pasolini raccontato da Abel Ferrara; sì, quello della “scomparsa delle lucciole”.

 

Articolo pubblicato sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” del 2 settembre 2014

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