“Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Una costante della storia italiana lampeggia nella mostra C’era una volta in Sicilia – I cinquant’anni del Gattopardo, a cura di Caterina D’Amico, che approda in questi giorni al Taormina Film Fest diretto da Mario Sesti e resterà aperta fino al 17 agosto nel palazzo Corvaja. E’ un viaggio multimediale nel capolavoro di Luchino Visconti, Palma d’oro a Cannes nel 1963, tratto dall’omonimo romanzo postumo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa che Feltrinelli aveva pubblicato nel 1958. “Noi fummo i gattopardi, i leoni: chi ci sostituirà saranno gli sciacalli, le iene; e tutti quanti, gattopardi, leoni, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra”. La pagina, fra le più corrusche di Tomasi di Lampedusa, è un’autentica agnizione di Don Fabrizio principe di Salina che scorge se stesso e il bestiario del futuro in agguato. Nel film lo interpreta Burt Lancaster, affiancato da Alain Delon, Claudia Cardinale, Paolo Stoppa, Romolo Valli, Giuliano Gemma e dalla quattordicenne esordiente Ottavia Piccolo. Dopo lo sbarco dei Mille e all’alba dello Stato unitario, nell’isola si manifesta il “gattopardismo” che diventerà presto un sinonimo del trasformismo nazionale, nella sua versione più cinica e raffinata: la capacità di adattarsi al nuovo pur di conservare il potere e i privilegi di ieri.
La mostra di Taormina, realizzata dal Centro Sperimentale di Cinematografia con il contributo del programma “Sensi Contemporanei”, è una sorta di cine-racconto della genesi e del processo creativo dell’opera. Un prologo viene dedicato al romanzo che subì molti rifiuti editoriali, in primis quello della Einaudi guidata dal siciliano Elio Vittorini. Quindi, ecco illustrati i luoghi e i momenti del film, dalla dimora di Salina (Villa Boscogrande) alla battaglia di Palermo, al lungo e magnifico ballo finale. Il tutto è testimoniato dagli scatti del fotografo di scena Giovan Battista Poletto e di Nicola Scafidi, fotoreporter dell’“Ora” di Palermo diretta da Vittorio Nisticò. Non mancano documenti, lettere, bozzetti, costumi originali della leggendaria sartoria Tirelli, e sui monitor passano brani di interviste al produttore Goffredo Lombardo, alla sceneggiatrice Suso Cecchi d’Amico (madre della curatrice), al direttore della fotografia Giuseppe Rotunno, a Lancaster e alla Cardinale.
Intanto nella Biennale Architettura diretta da Rem Kolhaas, aperta a Venezia da pochi giorni e fino al 23 novembre, Visconti ritorna con le immagini di Bellissima sulle illusioni di Cinecittà (1951) e di Rocco e suoi fratelli sul dramma dell’emigrazione meridionale al Nord (1960). Nella sezione della Biennale chiamata “Monditalia”, alle Corderie dell’Arsenale, la storia del Paese è infatti ripercorsa in una galleria visionaria. Sugli schermi scorrono 82 sequenze stralciate da film più o meno famosi, che scandiscono 41 casi di studio o installazioni sviluppati da architetti, fotografi e studiosi.
Ancora, il nome di Visconti echeggia nell’esposizione che celebra le “trame di cinema” di Danilo Donati e della sartoria Farani, fino al 22 giugno a Villa Manin Passariano di Codroipo, in provincia di Udine. Donati fu tra i nostri grandi costumisti (vinse due Oscar) e giovane collaboratore del Visconti maestro della scena teatrale nel dopoguerra. Luchino era da poco fuoriuscito dalla “vigile inerzia dell’uomo di cultura” che caratterizzò i primi trentacinque anni della sua vita (1906 – 1976) secondo un’illuminante definizione del critico Lothar Schirmer. Quell’“inerzia” produsse poi diciassette film e una quantità di storici allestimenti teatrali e lirici. La sua estetica si nutriva di un perfezionismo proverbiale, a dispetto della sobrietà neorealistica degli esordi (Ossessione e La terra trema). Fa fede la vicenda delle rose fresche portate ogni giorno in aereo sul set bavarese di Ludwig. Il produttore del film, il barese Ugo Santalucia, non solo scomodò il suo ex professore di diritto e ministro degli Esteri Aldo Moro perché ottenesse dal governo austriaco il permesso di girare nei castelli scelti da Visconti, ma finì per rovinarsi economicamente – senza mai pentirsene -, pur di riuscire a portare a termine il tormentato e “decadente” Ludwig nel 1972, quando il regista fu colpito da trombosi.
D’altronde lo chiamavano il “conte rosso” e il ligneo salone liberty dell’Hotel des Bains al Lido di Venezia, da qualche anno in malinconico degrado, è giustamente intitolato all’aristocratico comunista che lì girò Morte a Venezia dal romanzo di Thomas Mann. Il padre di Luchino discendeva dai Visconti di Modrone che ressero la signoria di Milano dal 1277. Sua madre era Carla Erba, ricchissima erede della prima industria farmaceutica italiana, imparentata con la famiglia Ricordi. Si spiegano così sia la frequentazione della Scala fin dalla tenera età sia il soggiorno francese a metà anni Trenta, che, mentore Jean Renoir e tramite Coco Chanel, lo avvicinò al cinematografo. A Parigi si innamorò della letteratura di Marcel Proust e fare un film da À la recherche du temps perdu sarà la sua ossessione per tutta la vita, come attesta il copione scritto con Suso Cecchi D’Amico. Lo si ritrova fra i preziosi reperti del Museo del Cinema nella Mole Antonelliana di Torino, appena rinnovato negli allestimenti che attirano migliaia di persone ogni giorno (una felice eccezione italiana).
Visconti non avrebbe lesinato gli scandali in palcoscenico e sullo schermo. Basti ricordare quello suscitato dall’allestimento di L’Arialda di Testori nel ’60 e lo choc di Ossessione, il film d’esordio ispirato al Postino suona sempre due volte di James Cain (1943), dramma fra dannazione e riscatto con Massimo Girotti e Clara Calamai rivelatasi grazie al seno nudo nella Cena delle beffe di Blasetti. “Sul set di Ossessione – disse Girotti – c’erano dei problemi: Clara era innamorata di Luchino, Luchino era innamorato di me e io ero innamorato di Clara”. E l’omosessualità di Visconti alimentò cattiverie ed ostracismi anche da parte del Pci, nonostante l’ammirazione di Togliatti. Uno dopo l’altro, i suoi film calamitati e lacerati dall’epica o dalla storia, dall’eros o dalla rivoluzione/dissoluzione lasciavano segni ancora vividi: La terra trema, Bellissima, Senso, Le notti bianche, Rocco e suoi fratelli, sinfonia dei miserabili a Milano dedicata al poeta lucano Scotellaro, Il Gattopardo, La caduta degli dei e oltre.
IL FORMIDABILE 1963 DEL CINEMA ITALIANO
Il Gattopardo di Luchino Visconti vinse la Palma d’oro del festival di Cannes in un 1963 fortunatissimo per il cinema italiano che si aggiudicò anche l’Orso d’oro di Berlino con Il demonio di Brunello Rondi nella Lucania magica e contadina, il Leone d’oro veneziano a Le mani sulla città di Francesco Rosi girato a Napoli, e l’Oscar per la migliore sceneggiatura di Divorzio all’italiana firmata da Pietro Germi con Ennio De Concini e Alfredo Giannetti, sublime commedia di ambientazione siciliana. Come Il gattopardo, nel bene o nel male, sono tutti film dalla pregnanza meridionale. Fa eccezione l’altro capolavoro del formidabile ‘63, il felliniano 8 ½ che avrebbe mietuto premi l’anno successivo, a cominciare dagli Oscar per il miglior film straniero e al costumista Piero Gherardi. Quest’ultimo riuscì a ottenere la statuetta hollywoodiana nella categoria delle pellicole in bianco e nero, mentre nella medesima cerimonia mancò l’obiettivo Piero Tosi, nominato per i costumi dei film a colori con Il Gattopardo. Tra i collaboratori prediletti da Visconti, Tosi ha vinto l’Oscar soltanto nel 2014, un riconoscimento alla carriera.
Articoli pubblicati sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” del 17 giugno 2014