Libia, vergogna senza fine. Non bastavano i tagliagole e i mercenari reclutati dalle due parti in guerra e dai loro sponsor esterni. Nel caos libico, s’inserisce ora un’altra pagina inquietante, vergognosa: o combatti, o ti ammazziamo. Il ricatto ai migranti. Le parti impegnate nel conflitto in Libia stanno usando i migranti come combattenti. Lo denuncia l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati. ”Abbiamo le prove, da parte di persone che si trovano nei centri di detenzione, che è stata offerta loro la proposta di restare lì per un periodo indefinito oppure di combattere al fronte”, ha detto alla Dpa il rappresentante speciale dell’Unhcr per il Mediterraneo centrale, Vincent Cochetel. Al momento, Cochetel dice di non essere in grado di dire quanti migranti abbiamo accettato l’offerta. ”Se decidono di farlo, viene data loro una uniforme, un fucile e vengono immediatamente portati nel mezzo della guerriglia urbana”, ha aggiunto.”Abbiamo visto che questi tentativi di reclutamento” dei migranti ”riguardano prevalentemente i sudanesi – ha proseguito Cochetel – Riteniamo questa scelta motivata dal fatto che parlano arabo. Entrambe le parti” in conflitto in Libia ”sono coinvolte”, ovvero le milizie fedeli al governo del premier libico Fayez al-Sarraj e l’autoproclamato Esercito nazionale libico del generale Khalifa Haftar. La guerra per procura alimenta la tragedia umanitaria.
Secondo l’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) solo nelle prime due settimane del 2020 sono almeno 953 i migranti (tra cui 136 donne e 85 bambini) riportati in Libia dalla Guardia costiera. La maggior parte sono sbarcati a Tripoli e tutti sono stati portati nei centri di detenzione. Inoltre, sono tante le persone che continuano a scappare: le navi di ricerca e salvataggio delle ong negli ultimi giorni hanno salvato 237 persone. Tra loro anche famiglie di libici in fuga: almeno 17 sono stati salvati dall’ong tedesca Sea Watch, erano tutte su un unico barchino, 10 uomini e 7 donne, tra cui 9 minori.
“In Libia c’è una guerra, una situazione drammatica che negli ultimi mesi ha visto un’accelerazione con l’intensificarsi delle violenze e quindi con vittime, moltissime civili – spiega la portavoce di Unhcr Carlotta Sami -. Almeno 1 milione di persone ha bisogno di assistenza umanitaria. Da aprile ad oggi oltre 180mila libici sono stati costretti ad abbandonare le proprie case. Gli sfollati interni sono ormai più di 340mila. Unhcr non riesce ad avere accesso a tutte le zone della Libia. Ad esempio il sud del Paese e l’area di Bengasi sono irraggiungibili. Anche la via terrestre di accesso alla Tunisia è impraticabile”..
Il conflitto armato “rende la situazione quotidiana estremamente volatile e questo complica enormemente la costruzione e la messa a disposizione di soluzioni per i rifugiati e i richiedenti asilo presenti in Libia – aggiunge Sami -: registriamo come anche quando le autorità locali sono disposte a discutere della protezione dei rifugiati e dei richiedenti asilo, non riusciamo poi a concretizzare perché esse stesse sono principalmente concentrate sulle problematiche relative al conflitto. Va detto che nonostante il conflitto le persone ancora arrivano dalle frontiere meridionali”.
Per questo Unhcr chiede un cambio di passo e un sostegno maggiore ai Paesi di primo asilo come Etiopia, Sudan, Ciad, per offrire condizioni di accoglienza e lavoro sostenibili. «Chi poi cerca di attraversare il Mediterraneo viene nella maggior parte dei casi intercettato dalla Guardia costiera libica, centinaia già nei primi mesi dell’anno. A questo proposito si è venuta a definire una nuova dinamica: «Il conflitto armato ha indebolito il coordinamento tra Guardia costiera e ministero dell’Interno libici nelle procedure di sbarco – aggiunge la portavoce di Unhcr -. Di conseguenza, non tutti i migranti sbarcati e i richiedenti asilo vengono oggi sistematicamente detenuti. Stimiamo che circa il 30% venga liberato al momento dello sbarco. Questo è positivo di per sé ma sicuramente l’Onu e i partner devono intensificare gli sforzi per fornire assistenza a queste persone. E resta il fatto che la Libia non è un porto sicuro”.
In tutto i richiedenti asilo rinchiusi nei centri di detenzione gestiti dal governo libico sono circa 2.500. La guerra per procura ha interrotto la fornitura di servizi essenziali da parte delle autorità, compreso il cibo. “Per questo motivo alcuni centri sono stati aperti per far uscire le persone ma da settimane assistiamo a una dinamica terribile: in tanti pagano per rimanere o entrare nelle carceri, convinti di poter essere selezionati da noi per le evacuazioni umanitarie. È un tragico equivoco: informati male e disperati pensano che questo sia l’unico modo per arrivare in Europa – spiega ancora Sami -. La realtà è diversa e il terribile dilemma che viviamo ogni giorno, lavorando in Libia, è dato dal fatto che non ci sono posti per tutti nei Paesi sicuri e noi siamo costretti a scegliere tra i casi più vulnerabili. I canali legali e sicuri sono troppi pochi”. Unhcr ha chiesto ai Paesi europei la disponibilità a ricollocamenti per almeno 5mila persone ma per ora le offerte di accoglienza beneficeranno meno della metà delle persone.
“Dobbiamo essere presenti perché ce lo impone il nostro mandato umanitario e dobbiamo dialogare con tutti gli attori in campo. Dobbiamo riequilibrare gli aiuti indirizzati ai rifugiati in detenzione, che sono comunque del 50 per cento rispetto ad alcuni mesi fa, e a quelli che vivono nelle città, nelle strade, senza riparo – conclude Sami -. Sono almeno 43mila le persone che spesso si trovano in una situazione umanitaria disastrosa e sono costretti ad adottare dei meccanismi di sopravvivenza molto danno si come il lavoro minorile, il matrimonio tra minorenni, la prostituzione e certamente i viaggi mortali attraverso il Mediterraneo. Vogliamo incrementare l’assistenza umanitaria per questi “rifugiati urbani” insieme ai nostri partner, attualmente riusciamo a fornire dei pacchetti di aiuto a circa 850 famiglie sul territorio di Tripoli, e di aumentare le soluzioni legali e sicure al di fuori della Libia”.
Ma Unhcr e Oim hanno più volte detto di non essere assolutamente in condizione di garantire dignitose condizioni di vita in Libia. Lo aveva ribadito, nel dicembre scorso a Bruxelles, Vincent Cochetel, In quell’occasione, l’inviato speciale dell’Unhcr per il Mediterraneo Centrale, haveva ribadito la richiesta di “chiusura totale dei centri”. “Una delle nostre attività oltre ad occuparci degli sfollati interni e dei rifugiati è condurre grazie ai nostri staff delle visite nei centri di detenzione per cercare di comprendere i bisogni primari di queste persone”, ha spiegato Cochetel.
Le cifre stimate indicano che ci sono più di 4.000 persone nei centri di detenzione ufficiali, quelli a cui l’Unhcr ha accesso, e si ritiene che 2.500 siano i rifugiati e i richiedenti asilo. L’inviato Onu ha poi spiegato che all’interno di queste strutture si trovano “due tipologie di persone: chi vuole lasciare la Libia imbarcandosi in modo irregolare e attraversare il Mediterraneo e chi invece paga per essere detenuto al suo interno”. Quest’ultima categoria, “un trend evidenziato negli ultimi 3-4 mesi” raggruppa le persone che “preferiscono essere detenute nella speranza di poter poi essere identificate dall’Unhcr e dunque redistribuite”, aveva sottolineato Cochetel. Poi, ha aggiunto, ci “sono anche altre persone che preferiscono la detenzione in quanto si sentono più protette e sicure dentro questi centri”. Vivere fuori nei centri abitati potrebbe essere “più rischioso per la loro vita”.
Secondo le Nazioni Unite, nel 2019 il conflitto armato in Libia ha causato oltre 284 morti tra la popolazione civile e provocato lo sfollamento di più di 140.000 persone. Una dichiarazione diffusa dall’Onu il 3 gennaio 2020 ha denunciato l’aumento degli attacchi indiscriminati che hanno messo in pericolo scuole, centri sanitari e altre infrastrutture civili a Tripoli e nei suoi dintorni, come l’aeroporto di Mitiga.Questa sofferenza senza fine, questi ricatti spregevoli, così come le motivate richieste avanzate dall’Unhcr faranno fatica a trovare spazio nella Conferenza sulla Libia di domenica prossima a Berlino. Faranno fatica perché a quel tavolo siederanno attori, interni ed esterni al Paese nordafricano, che con le loro scelte scellerate hanno alimentato la tragedia dei migranti e una guerra per procura che nulla ha a che fare con i diritti umani e tanto, tutto, con la spartizione della miliardaria “torta” petrolifera.
A Berlino ci saranno lo “Zar” e il “Sultano”, al secolo Vladimir Putin e Recep Tayyp Erdogan: il primo supporta l’uomo forte della Cirenaica, il generale Khalifa Haftar, attraverso i contractor del “Wagner Group”, il secondo, arruolando nelle fila delle forze fedeli al primo ministro del Governo di accordo nazionale, Fajez al-Sarraj, miliziani qaedisti che hanno combattuto in Siria, macchiandosi di esecuzioni di massa, stupri, saccheggi, torture. Nei lager libici, finanziati con denaro europeo, anche italiano, pietà l’è morta da tempo. Con buona pace dei versatori di lacrime di coccodrillo che si riuniranno a Berlino. Provando a recitare una parte che non gli si addice: quella dei pacificatori. Alcuni di loro più che a Berlino starebbero bene a Norimberga. Sul banco degli imputati in una “Norimberga” libica.