Altro che Roma vs Parigi, tradotta in chiave interna in Sarraj contro Haftar. Questi, sono frammenti di verità. Ma marginali, ormai pressoché inesistenti. Perché al centro della partita libica vi sono due altri player. Due potenze regionali. Due potenze sunnite: Egitto e Turchia, ognuna delle quali porta con sé altri alleati sunniti, come gli Emirati Arabi Uniti, munifici sostenitori, in denaro e armamenti, dell’uomo forte della Cirenaica. La Turchia, che sostiene il governo di Tripoli, e gli Emirati Arabi Uniti e l’Egitto, dalla parte di Haftar, sono uniti nella determinazione a evitare il collasso dei loro rispettivi clienti. E non solo per questioni di rivalità regionale. Ankara mantiene rapporti commerciali con la Libia fin dall’epoca ottomana, proseguendo per tutta la dittatura di Muammar Gheddafi fino ai giorni nostri. La Libia deve alle compagnie turche ingenti somme che questi perderebbero se il governo di Tripoli crollasse. Da parte loro, gli Emirati Arabi Uniti e l’Egitto non possono accettare che Tripoli imponga una sconfitta decisiva alle milizie di Haftar. Ai loro occhi, infatti, uno scenario tale significherebbe il rafforzamento delle organizzazioni islamiste sulle quali il tormentato Gna si fonda. La posta in gioco – rivela il Middle Est Eye- – è tale da aver coinvolto nella partita persino il Mossad. Gli Emirati Arabi Uniti hanno fornito aiuti militari ad Haftar negli ultimi 4 anni, in quasi tutte le sue guerre a Bengasi, Derna e nella regione meridionale della Libia, e lo stanno attualmente supportando nella sua guerra nell’Ovest della Libia
“Tuttavia – annota Eleonora Ardemagni, Nato defense college foundation e Ispi -dietro gli emiratini e i turchi, si celano altri due importanti attori regionali: l’Arabia Saudita e il Qatar. Utilizzando un’immagine tennistica, si potrebbe quindi dire che EAU-Arabia Saudita e Turchia-Qatar giocano in Libia ‘un doppio finalizzato qui a indebolire, il più possibile, la coppia avversaria. Per ragioni diverse, i sauditi e i qatarini ricoprono un ruolo da attori non protagonisti in territorio libico. Per Riyadh, che ha fin qui fornito appoggio politico e finanziario alla fazione di Haftar, la Libia non è mai stata una priorità di politica estera, a differenza dell’Egitto post-Mubarak. L’obiettivo principale dei sauditi, alfieri della contro-rivoluzione regionale tentata dopo le rivolte arabe del 2011, è contenere anche a Tripoli l’espansione della Fratellanza Musulmana.
Per Abu Dhabi si potrebbe dire lo stesso, con due significative differenze. Gli emiratini, oltre alla questione del contrasto agli Ikhwan, percepiscono la Libia come uno strumento di proiezione strategica e infrastrutturale verso nord (coste dell’Africa Mediterranea) e verso sud (Sahel e Africa continentale) e dunque hanno scelto di fornire sostegno militare alle milizie filo-Haftar per intrecciare alleanze locali.
Per Doha, la Libia è stata finora una terra di opportunità. Dopo il 2011, i qatarini hanno provato a cavalcare l’onda della trasformazione geopolitica post-rivolte arabe, sostenendo anche militarmente gruppi legati all’Islam politico e ai Fratelli Musulmani. Di fronte al crescente attivismo dell’alleata Turchia in Libia, il Qatar ha però ridotto la propria esposizione politica nel paese, come implicitamente confermato dal mancato invito alla Conferenza di Berlino. Infatti, Ankara persegue obiettivi strategici pressoché sovrapponibili a quelli di Doha: un ‘gioco di sponda’ che include il sostegno all’esecutivo di al-Serraj e gli equilibri marittimo-energetici nel Mediterraneo, contrapponendosi così alla strategia emiratina-saudita. In Libia ancor più che in Yemen e in Siria – rimarca ancora l’analista dell’Ispi – emergono i due modelli contrapposti di governance politico-sociale che le monarchie del Golfo stanno cercando, dal 2011, di promuovere in Medio Oriente. Gli Emirati Arabi e, in misura minore, l’Arabia Saudita, guardano con favore a leadership caratterizzate da una forte trazione militare, come nel rassemblement del generale Haftar. Uno schema ‘apolitico’ (o meglio “panmilitare”, visto lo squilibrio nelle relazioni civili-militari), finalizzato ad arginare il modello dell’Islam politico e dell’islamizzazione dal basso sostenuto, invece, dal Qatar..”.
Gli interessi emiratini in Libia sono molteplici, come spiega a Formiche.net Cinzia Bianco, research fellow su Europa e Medio Oriente all’European Council on Foreign Relations di Berlino. “Partiamo dal principale: la ‘String of Ports’, la strategia con cui gli emiratini vogliono costruire una catena di porti, con la quale vogliono diventare una stampella della Cina nella Belt and Road Initiative. Ossia vogliono essere un offshot della Bri che loro possono controllare e gestire, diventando così un partner nevralgico e indispensabile di un player che considerano in ascesa, diversamente da come vedono gli Stati Uniti. Questo pensano che gli garantirà influenza internazionale in futuro”. “ L’altro grande obiettivo emiratino è quello di contrastare la Fratellanza musulmana, che in questo momento ha nella Turchia il paese di riferimento. E siccome in questo momento la Libia è importante per Ankara, e la Turchia è diventata il nemico-numero-uno nella lista di pericolosità di Abu Dhabi, l’equazione è fatta”, aggiunge Bianco.
La Libia, ancor più della Siria, è dunque il terreno di scontro che ha come posta in gioco non solo una ridistribuzione delle risorse petrolifere ma la leadership stessa nel campo
In questo quadro, oltre a interessi militari e politici, l’Egitto è spinto a partecipare attivamente nello scenario libico anche da interessi economici, tanto fragili quanto importanti per il governo di al-Sisi. Il presidente egiziano ha di fatto mostrato la propria preoccupazione per i cittadini egiziani in Libia, lavoratori emigrati da decenni che, una volta iniziati gli scontri militari, hanno cercato protezione in patria pur senza avere la possibilità di essere riassorbiti nel tessuto lavorativo e sociale (scenario attualmente inattuabile per il fragile Egitto). Le stime dei lavoratori egiziani in Libia si aggirano intorno a una cifra che va dai 700.000 al milione e mezzo di unità. Lavoratori che versano sotto forma di rimesse in Egitto quasi venti miliardi di dollari, linfa vitale per le casse di uno stato in estrema difficoltà economica nonché politica e sociale.
A far gola ad al-Sisi c’è anche il futuro energetico dell’Egitto. Un paese che intende sviluppare la propria infrastruttura industriale ha sempre necessità di petrolio. Necessità che può essere soddisfatta da Haftar, qualora diventi leader riconosciuto della Libia. La vittoria del governo di Tobruk offrirebbe un’opportunità non da poco per l’Egitto, che intende rilanciarsi economicamente anche grazie alle fonti energetiche presenti in una regione nella quale vuole tornare a fare la voce grossa. Linfa vitale per le imprese del settore energetico egiziano, nei decenni passati tagliate fuori quasi del tutto dalla francese Total e dall’italiana Eni.
Quanto alla Turchia, oggi, la Libia è il terzo partner commerciale di Ankara in Africa. Sono innumerevoli i trattati bilaterali tra i due paesi, tra i quali vanno ricordati l’Accordo per il rafforzamento della cooperazione economica e tecnica (1975) e l’Accordo bilaterale per gli investimenti e la protezione (2009). I due paesi hanno inoltre deciso di dar vita, l’anno prossimo, a un accordo di libero scambio. Non basta. La Turchia è tra i maggiori investitori in Libia. Sono stati firmati accordi per realizzare progetti d’intervento in Libia, in particolare nel settore delle infrastrutture, che superano i venti miliardi di dollari. In termini di quantità di lavoratori impiegati nella realizzazione di opere all’estero da parte della Turchia, la Libia è il secondo mercato dopo la Russia.
Geopolitica e affari: la crisi siriana ha fortemente indebolito le rotte del petrolio da Arabia Saudita, Iran, Iraq e stati del Golfo. E questo ha portato Ankara a puntare decisamente, nella “battaglia del petrolio”, al sud del Mediterraneo e dunque alla Libia. Mentre altri patteggiavano sotto traccia con milizie o andavano alla ricerca, in terra libica, di improbabili uomini forti a cui affidare il ruolo di gendarme del Mediterraneo, la Turchia ha sviluppato una penetrazione a trecentosessanta gradi, dalla cultura all’alimentazione. I turchi hanno aperto a pioggia ristoranti e negozi, mentre diciannove miliardi di dollari sono stati investiti nel campo delle costruzioni attraverso la Turkey Contractors’ Association.
La penetrazione avviene anche via “cielo”. La Turkish Airline ha riattivato, lo scorso mese, i voli per Misurata (centro principale della comunità di origine turca in Libia e città-chiave nella determinazione dei nuovi equilibri di potere nel Paese) e analoghi progetti riguarderanno Tripoli, quando l’aeroporto internazionale, chiuso da luglio, verrà posto in sicurezza.
Proprio il controllo dei cieli spiega i rovesci subiti di recente da Haftar nella sua offensiva per prendere il controllo di Tripoli, lanciata nell’aprile del 2019. Se i droni Wing Loong di fabbricazione cinese operati dagli Emirati arabi uniti non agiscono più indisturbati su Tripoli e Misurata, come successo nei mesi scorsi, lo si deve alla crescente presenza dei velivoli senza pilota turchi Bayraktar a sostegno del governo di Sarraj. Nelle scorse settimane, infatti, droni turchi hanno attaccato i convogli di rifornimento alle forze di Haftar presenti nell’Ovest del Paese. Secondo Wolfram Lacher, un’analista del centro di ricerca tedesco Swp “l’equilibrio di potere è cambiato negli ultimi due mesi a causa del sostegno turco e di quello che la Turchia ha portato, come forniture e combattenti. Questo – ha continuato – pone la domanda su cosa faranno i sostenitori di Haftar. E c’è il rischio di un’ulteriore escalation se dovessero decidere di rafforzare il proprio supporto, cosa che mi aspetto facciano”.
Nelle due settimane a cavallo della conferenza di Berlino (12-26 gennaio), Abu Dhabi ha dato vita ad un vero e proprio “ponte aereo” verso la Cirenaica, garantendo all’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna) al comando di Haftar una enorme quantità di rifornimenti bellici. Si tratta complessivamente di quasi 40 voli le tra basi militari emiratine e giordane e quelle di Bengasi e al-Khadim in Cirenaica, tutti compiuti con trasporti strategici Antonov e Ilyushin. Uno sforzo logistico del genere lascia pensare che l’obiettivo non sia, semplicemente, un rafforzamento delle posizioni di Haftar sui vari fronti, bensì quello di prendere il potere con la forza, sfondando le difese della capitale e della città alleata di Misurata.
D’altro canto, piuttosto che assistere all’affermarsi di un governo ostile a Tripoli, sotto l’egida turca, al-Sisi e i suoi alleati emiratini punterebbero decisamente al dissolvimento della Libia come stato unitario e alla creazione di uno “stato-protettorato” della Cirenaica, governato attraverso il fedele Haftar. E così, il futuro riporterebbe al passato: e come nel passato, Egitto e Turchia sarebbero i “ big players” della sfida intersunnita. Con l’aggiunta di Abu Dhabi.