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Massimo Rosati

Docente sociologia generale Università di Roma Tor Vergata

Libertà religiosa e non discriminazione secondo la ECHR

Fatti.

In un post di mesi fa avevo presentato il caso del ricorso di quattro cittadini inglesi alla Corte europea dei diritti dell’uomo (ECHR), per presunta violazione della loro libertà religiosa nei rispettivi luoghi di lavoro. Nadia Eweida, impiegata al banco check-in della British Ayrways, licenziata per essersi rifiutata di togliere dal collo una catenina con la croce. Shirley Chaplin, infermiera, licenziata perché si rifiutava di togliere la collanina al collo con il crocefisso. Lilian Ladele, ufficiale dell’anagrafe, minacciata di licenziamento perché si rifiutava di celebrare “civil partnership” tra coppie omosessuali. Gary McFarlane, psicologo, licenziato dall’organizzazione per cui lavorava perché in teoria, qualora si fosse presentato il caso, avrebbe avanzato ragioni di obiezione di coscienza nel fare terapia di coppia a coppie omosessuali. Il 15 gennaio scorso è arrivata la sentenza della ECHR, che accoglie il ricorso di Nadia Eweida e respinge gli altri tre. Sinteticamente, vediamo perché.

La Corte europea riconosce la legittimità da parte della compagnia British Airways di stabilire un certo codice relativo all’abbigliamento del personale di servizio, per comunicare una specifica immagine della compagnia e promuovere la riconoscibilità del brand. Tuttavia, la compagnia prima e i diversi tribunali inglesi che hanno esaminato il caso dopo, avrebbero attribuito a questa esigenza un peso sproporzionato a fronte a) della sincera motivazione della ricorrente, la cui esposizione di un simbolo religioso come la croce corrisponde a una credenza fortemente sentita; b) del carattere discreto del simbolo in questione che non lede l’esigenza legittima di un codice di abbigliamento comune e riconoscibile dello staff della compagnia inglese; c) della precedente autorizzazione da parte della compagnia a beneficio di altri impiegati di indossare turbanti o hijabs. Inoltre, la stessa compagnia – a seguito dell’inizio del contenzioso con la Eweida – aveva ritenuto opportuno varare un nuovo regolamento, che riconosce la legittimità di indossare simboli religiosi. Dunque la compagnia è chiamata a risarcire la ricorrente per i mesi in cui è stata sospesa dal lavoro. Il secondo caso invece, quello di Shirley Chaplin, vede l’esigenza di bilanciare due principi: il rispetto della libertà religiosa di una persona che vive una credenza come elemento centrale della propria identità, che anche in questo caso si manifesta indossando una croce, da un lato, e il bisogno di proteggere salute e sicurezza tanto di pazienti quanto del personale medico ed infermieristico, dall’altro. Dato il contesto e la professione di Shirley Chaplin (a cui era stato anche offerto senza successo di porre la croce anziché al collo in punti in cui non avrebbe rischiato il contatto con i pazienti), la Corte europea ha ritenuto che il secondo principio fosse di portata e peso superiore. La libertà religiosa viene qui pro-tempore subordinata a esigenze di sicurezza e salute in un contesto particolare come un ospedale. Il terzo e il quarto caso, invece, vedono un diverso tipo di bilanciamento. Anche qui, la Corte riconosce le serie conseguenze che per i due ricorrenti ha l’esercizio di una professione che, in certi casi, entra seriamente in confitto con credenze religiose profondamente vissute in materia di matrimonio e etica sessuale; ciononostante, la Corte fa prevalere il principio di eguaglianza e di non discriminazione: né una amministrazione pubblica né un servizio di consulenza terapeutica possono offrire prestazioni differenziate in base alle scelte sessuali, etiche, religiose, o alle appartenenze etniche dei propri utenti.

Qualche considerazione.

La Corte di Strasburgo muove da alcune premesse. La prima è la constatazione di un dato di fatto: nella maggior parte dei paesi europei, questioni come quelle relative alla legittimità della esposizione di simboli religiosi nei luoghi di lavoro o dell’abbigliamento religioso non sono regolamentate. In alcuni paesi – Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Olanda – le corti hanno ammesso la legittimità di interventi restrittivi da parte dei datori di lavoro, anche in assenza di leggi esplicite in questo senso; in Francia e Germania, alcuni cantoni svizzeri, Turchia e Ucraina  esiste un divieto assoluto per funzionari pubblici e impiegati statali. Non c’è quindi uniformità nell’interpretazione di questioni come libertà religiosa e modi di intendere la laicità. L’Europa, ormai lo sappiamo, vede modernità multiple anche al suo interno. La seconda premessa riguarda l’interpretazione che la stessa ECHR offre della libertà religiosa nelle democrazie contemporanee, e che fa da guida alle decisioni riguardanti i singoli casi. L’art. 9 della Convenzione europea afferma tra l’altro che a) la dimensione religiosa è una delle componenti principali dell’identità dei credenti e delle loro concezioni della vita, ma è rilevante anche per atei, agnostici e ‘unconcerned’; b) la libertà religiosa ha a che fare in primo luogo con la libertà di coscienza e di pensiero, ma anche con la libertà di culto, con la manifestazione pubblica delle proprie credenze; c) nelle sue forme pubbliche la libertà religiosa deve essere protetta quando raggiunge un certo livello di cogenza, serietà, coesione ed importanza, e soprattutto quando dà prova di essere intimamente legata a credenze interiori sinceramente e profondamente vissute come tali.

Ce n’è abbastanza per registrare la complessità della situazione e lo sforzo della Corte, come pure i problemi che rimangono in piedi. Non c’è dubbio, almeno dal mio punto di vista, che la Corte prenda sul serio ruolo e spazio che le religioni hanno nelle democrazie contemporanee in Europa oggi, sia con riferimento alle identità individuali che a quelle collettive, sia nella loro dimensione privata che in quella pubblica; non c’è dubbio che nel far questo la Corte offra complessivamente un’interpretazione della libertà religiosa e del rapporto tra libertà religiosa (nella sua dimensione pubblica ed esteriore) e spazi della vita collettiva più flessibile di quanto sia in altri contesti legislativi locali e nazionali (Francia ovviamente in primis): se l’Europa è plurale, la Corte cerca di portare a sintesi le prospettive nazionali su una base più avanzata rispetto al conservatorismo di alcuni paesi. E tuttavia, in uno sforzo pure generoso, molti problemi sembrano permanere: dove e come si traccia la linea tra pubblico e privato, tale da permettere di riferirsi ad uno spazio lavorativo come propriamente secolare (una pubblica amministrazione come in alcuni dei casi di cui sopra) o viceversa privato (come il mercato di servizi) e quindi meno soggetto a regolamentazione? E ancora: che lo spazio pubblico (e quale poi? Corti e tribunali, parlamenti, scuole, prigioni?) sia o debba essere per definizione secolare e quindi anestetizzato rispetto a particolarismi religiosi, è esattamente uno dei punto controversi, non la soluzione del problema; e, per finire, come decidere quando una manifestazione di fede raggiunge un certo grado di cogenza, serietà, coesione e importanza? Il criterio della sincerità, costantemente richiamato dalla Corte nella sentenza in questione, è assolutamente problematico e cristiano-centrico, per chiunque ne sappia un po’ di religioni in ottica non etnocentrica (cfr. A. B. Seligman e altri, Rito e modernità. I limiti della sincerità, Armando editore, 2011).

La British Airways nel 2007 ha varato un nuovo regolamento interno che autorizza il personale ad indossare simboli religiosi sulla divisa della compagnia; la Corte europea in tutti i casi ha riconosciuto il carattere religioso della croce, che tribunali italiani ancora definiscono simbolo ‘culturale’; la Corte europea ha cercato (e a mio parere trovato) le forme migliori di bilanciamento contestuale di principi (la non discriminazione, l’eguaglianza, la sicurezza e la salute, la libertà religiosa) cui attribuisce in linea di principio eguale peso e portata. Si tratta, a mio avviso, di aspetti positivi; se anche rimangono molti problemi e ragioni di riflessione critica, credo comunque che la sentenza in questione stia ad indicare una posizione dell’Europa nel suo complesso più avanzata di quella di singoli paesi. Potrà non risultare condivisibile da tutti, nel giorno delle polemiche per il voto della legge francese sui matrimoni omossessuali, ma dopo questa sentenza l’Europa mi sembra avere più, e non meno, rispetto e tutela per la libertà religiosa.

 

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