In questi giorni ho avuto modo, come diceva la canzone, di vedere, ma nel mio caso non di nascosto, “l’effetto che fa”. Mi riferisco al mio “liberalismo senza teoria”. In presentazioni pubbliche, sui giornali, qualche volta in privato, amici e studiosi che stimo mi stanno dicendo la loro. Due sono gli elementi che noto. Da una parte che il mio libro, pur essendo un libro di filosofia, è letto e apprezzato da storici, politologi, studiosi di scienze sociali, ma poco o punto dai filosofi in senso stretto. Sicuramente, il fatto che io abbia una concezione storicistica della filosofia spiega questa asimmetria. Ma più probabilmente la spiega ancor più il termine “liberalismo”: i filosofi sono per lo più allergici ad esso, giudicando l’antiliberalismo e l’anticapitalismo, come ha efficacemente scritto Ernesto Galli Della Loggia, una specie di loro “dovere cetuale”. Un libro che il termine lo porta addirittura nel titolo, è naturalmente snobbato. Il secondo elemento che noto è che sono spesso frainteso. Per carità, io cerco la critica, anche quella aspra e maschia, non solo per vari motivi, diciamo così, “epistemologici”, ma anche perché su alcuni punti e su alcune interpretazioni sento ancora l’esigenza di fare io stesso luce. Ma la critica è una cosa, l’equivoco è un altro. Se poi il fraintendimento si unisce all’amicizia e alla stima personale che il fraintendente ha sempre mostrato nei miei confronti, il disagio da me avvertito è indubbio. Poiché non arrivo ancora a punte di megalomania così alte da dire che il mio liberalismo è troppo raffinato per essere còlto in tutte le sue sfumature (anche se devo dire che questa considerazione vale per il pensiero del mio maestro Croce), ne deduco che delle due l’una (ma credo più la prima): o non sono bravo io a farmi capire; o non merito ancora la profondità di attenzione che vorrei per me e per le mie cose. Certo, può sempre capitare, ma sono casi rari, che un vecchio ed esimio professore dell’Università di Napoli capisca il mio modesto pensiero meglio di me stesso. Oppure che, recensendo un mio precedente libro, colga dei nodi per me importanti un eccentrico e irregolare intellettuale nato comunista e berlusconiano della prima ora. O ancora può succedere, per venire all’oggi, che un più giovane ma altrettanto illustre professore, dopo aver detto di essere rimasto disturbato, spiazzato, e quasi senza parole, dopo la lettura del mio libretto, fa presente che, pur sapendo che non corrispondono del tutto al mio più profondo sentire, gli siano venuti in mente una parola e un nome, cioè Vita e Nietzsche. In effetti non sono vitalista e nietzschiano, ma sicuramente il mio liberalismo è tragico, dimidiato, inconciliabile e irriducibile. Ma tragica, direi, è la condizione umana. E tragica è la storia, che, se è tutto l’essere, pure è percorsa da una fenditura o una cesura insanabile, tanto che, come diceva Croce, mentre si pensa come necessità la si vive e la si agisce come libertà. Anche l’amico Dino Cofrancesco, nello scrivere una bella recensione al mio libro stamattina su “Il Giornale”, ha detto di aver provato “disagio” davanti alle mie tesi (http://www.ilgiornale.it/news/cultura/liberalismo-funziona-perch-non-pura-teoriail-saggio-969311.html). Il che, per chi come me crede nell’inquietudine, che è poi irrequietezza, intellettuale, è un bel complimento. Su un punto però non sono d’accordo con l’amico, quando egli, alla fine del suo discorso giustamente critico nei confronti di certo azionismo, confida nell’azione non dei cittadini ma di uno “statista liberale” che proceda a “tagli chirurgici per ristabilire un corretto funzionamento del mercato”. Mi sembra una fiducia un po’ troppo statalista o interventista, mentre io, da liberale storicista, preferisco sempre, e perciò sono contro gli azionisti, l’azione dal basso a quella dall’alto. D’altronde, il problema vero delle nostre divergenze è altrove, io penso, e cioè in una idea-concetto che Dino considera un “punto fermo” e che a me non sembra affatto un solido pilastro. Mi riferisco all’individuo, un concetto che Croce, come buona parte della filosofia degli ultimi due secoli, smonta, o “decostruisce” come dicono i filosofi fighetti, radicalmente. Ma lo fa al pari di altri concetti, anche di quelli che si vogliono ad esso opposti: Hayek impallidisce, ad esempio, di fronte alla riduzione “nominalistica”, direi thatcheriana, che il filosofo napoletano fa dello Stato, dicendo che è il mero flatus vocis con cui indichiamo un plesso di azioni. Il suo tentativo è quello di costruire un liberalismo non individualistico, il che può sembrare un paradosso ma vi assicuro che non lo è. Per Croce, come per molta parte della filosofia contemporanea, l’individuo è, in effetti, la sua situazione o la sua circostanza, come direbbe Ortega: non un dato di fatto o un presupposto. “L’individuo –scrive per definirlo- non è una ‘monade’ o un ‘reale’, non è un’ ‘anima’, creata di un sol getto e impronta da un Dio: l’individuo è la situazione storica dello spirito universale in ogni istante del tempo, e perciò l’insieme degli abiti che per effetto delle situazioni storiche si sono prodotti. E bisogna accuratamente scansare -continua Croce- quei modi di concepire onde si parla di un medesimo individuo in due situazioni diverse, o di due individui diversi in una situazione medesima, perché individuo e situazione sono tutt’uno” L’individuo, alla fine, non è che il momento economico dello spirito universale, cioè, per dirlo in modo meno equivoco, dell’umanità in genere. Esso è il momento (storico e non sovrastorico) del suo individuarsi (un processo di individuazione, quindi).
CROCE E DELIZIE