Un buon metodo per cercare di capire se un libro ha valore e si distacca dalla media è quello di provare a chiedersi se l’autore, nello scriverlo, sia stato mosso come movente principale da un fattore per così dire esistenziale e abbia vissuto con tutto se stesso il problema di cui si è occupato. Ciò significa che, quando ciò accade, il libro prodotto non ha, almeno non in prima istanza, un valore strumentale: non è stato scritto per aggiungere un titolo al curriculum, o per fare bella figura in società e acquistare credibilità, o per farsi riconoscere in una comunità autoreferenziale di studiosi o esperti, o anche fare carriera accademica e avere prebende e onori. Di solito, libri di tal fatta non annoiano: non sono mai banali, non ripercorrono sentieri già tracciati, non hanno paura di spiazzare anche se non si propongono di farlo per principio (il che, a ben vedere, è un’altra forma di conformismo). Sono libri che hanno al centro solamente il loro oggetto e se ne fanno dominare. Tendono alla “verità”, non ad altro: sono, come suol dirsi, intellettualmente onesti. Sono libri attuali, perché muovono da un interesse del presente, ma anche inattuali, perché poco hanno in conto lo spirito del presente o la moda del momento. Fosse pure la moda che si crea in ambiti di vita ristretti e limitati, come può essere quello dei cosiddetti “filosofi politici” italiani. A cui faccio riferimento non a caso perché sono sicuro che, presso di loro, un libro come quello che ho presentato l’altra sera in Fondazione Einaudi non farà troppa fortuna, generando indifferenza o al massimo imbarazzo. L’autore si chiama Carlo Gambescia ed ho accettato di presentargli il volume nonostante non lo avessi mai conosciuto prima, né di persona né attraverso le sue opere (fra l’altro aveva già scritto una decina di libri). L’ho fatto un po’ per curiosità, un po’ perché avevo una vaga comprensione del valore della sua opera, ma soprattutto perché il tema trattato è quello che è da tempo al centro dei miei interessi: il liberalismo. Sul quale, in verità, molto si è scritto, e da diverse parti e con diversi intenti, e su cui perciò non sembra facile dire qualcosa di nuovo e originale. Per chi parla di liberalismo, il rischio di essere banali è sempre dietro l’angolo. Se non altro perché l’argomento si presta a due opposte ma a mio avviso ugualmente irriflesse retoriche: quella dei diritti e l’altra dell’ordine spontaneo autoregolantesi o come pure si dice dell’ “individualismo metodologico”. Gambescia, che si definisce un sociologo, è in realtà un uomo di cultura nel senso più ampio del termine, pur se forse del sociologo conserva una certa eccessiva propensione alle classificazioni. Le quali, tuttavia, nelle sue pagine sono fatte con il massimo di accortezza possibile, cioè considerando gli schemi per quello che sono: labili paletti da noi conficcati nel reale per avere un minimo di orientamento. Egli è uomo di molte letture, e soprattutto di quelle giuste. E ha titolato il suo libro Il liberalismo triste. Un percorso: da Burke a Berlin (Edizioni Il Foglio, Prato 2013, pagine 156, euro 14). Il suo riferimento, è scritto nella Prefazione, è a un “liberalismo non ridens che non confida nella provvidenza, né del mercato, né di altro genere, ma cosciente del fatto che si comanda alla politica obbedendo alle sue leggi o regolarità”. Ecco, potremmo dire che il liberalismo propostoci sia un liberalismo intriso di realismo politico, e quindi di senso del reale, della storia, dei conflitti. Un liberalismo non rassicurante e conciliato. E solo in questo senso, etimologico, tragico. Tragico ma non triste, a mio avviso. Non sempre chi concepisce costrutti ridenti ama infatti la vita. Anzi, si può dire il contrario: che non l’accetta perché la trova imperfetta. Ma non capisce che quell’imperfezione è la condizione del male, ma anche di ogni bene possibile, cioè precario e provvisorio come a noi si confà. Alla base del liberalismo di Gambescia c’è una precisa antropologia: l’idea che l’uomo è “un legno storto” per dirla con Kant o un essere mezzo angelo e mezzo diavolo come scrive James Madison in Federalist, 51. Il politico è l’elemento rimosso dai liberali ridenti, che vogliono neutralizzarlo o con le armi dell’economia o con quelle della tecnica o con quelle forse più pericolose di una morale astratta perché disincarnata. Certo, il politico è diabolico. Ma diabolico è, più in generale, quel momento della vitalità che ci costituisce e a cui la mentalità liberale cerca quanto più possibile di “aderire”. C’è anche una “gioia del male” (è il titolo di uno dei Frammenti di etica di Croce) che spesso è gioia del vivere, perché vive chi comprende che la radice di ciò che in astratto diciamo male è la stessa di ciò che diciamo bene. E cosa è la libertà se non il vivere fino in fondo in questa consapevolezza? Gli autori di Gambescia sono anche i miei, per lo più: Burke, Tocqueville, Weber, Pareto, Mosca, Croce, Ferrero, Ortega, Roepke, de Jouvenel, Freund, Berlin. Un ruolo importante gioca nella sua genealogia proprio Julien Freund, un autore in Italia poco frequentato ma (forse proprio per questo?) davvero profondo. Il suo L’Essence du politique (1965) è uno dei capolavori del pensiero del Novecento, una vera miniera per capire quella politica a cui si può comandare, per dirla con Gambescia, solo obbedendole, cioè conoscendola. Un’opera che vale anche come antitodo a tante astrattezze politologiche. Basti pensare alle poche parole con le quali Freund illumina il pensiero di Rousseau, oggi tornato di moda, e in genere il dispositivo teorico del contrattualismo, la dottrina più gettonata potremmo forse dire fra i liberali ridens. Tali teorie, scrive Freund (e Gambescia riporta a pagina 60 del suo libro) “au lieu de fonder le politique sur la societè, suivant leur intention première, elles fondent la societé sur le modèle du politique ou plutot d’une certaine conception politique, c’est-à-dire qu’elles prennent pour fondement ce qui il s’agit précisément de fonder”. Un circolo vizioso, in piena regola.
CROCE E DELIZIE
Lo leggerò, grazie della segnalazione, R. Fai