“Ora non sappiamo cosa ci aspetta”, mi ha scritto con una email angosciata, poco dopo l’attentato, un’amica libanese che vive ad Ashrafiyeh, il noto quartiere dove è esplosa la bomba il 19 ottobre. Nayla è una signora della tradizionale borghesia greco-ortodossa, piccola ma influente comunità lontana dalle posizioni estremiste dei clan più integralisti dei cristiani maroniti. Ha sempre sperato in una ricomposizione dell’eterno contrasto che divide i diversi gruppi religiosi (ben diciotto ufficialmente) uno dall’altro e all’interno di ciascuno di essi. L’attentato contro l’alto ufficiale dei servizi segreti che indagava il terrorismo che insanguina il piccolo Libano dal 2005, riapre laceranti ferite. E ora teme l’esportazione della guerra civile siriana in territorio libanese.
Possibile? Il regime alawita di Damasco e quello sciita di Teheran sono davvero interessati a portare la guerra interna oltre i propri confini? Non si rischierebbe il coinvolgimento armato di altri paesi sunniti della regione, contrari al regime di Assad? Non è certo facile, in una regione così mobile e complessa sul piano politico e religioso, rispondere a questa domanda. Certo: oggi come oggi è molto difficile dubitare della matrice siriana dell’attentato. Tuttavia non è detto che la logica di un attentato sia alla lunga più coerente con gli obiettivi finali degli stessi attentatori. Ora non si possono scartare altre possibili reazioni. Esterne ma anche interne al Libano. Come la radicalizzazione dello scontro politico, iniziato anni fa, tra il raggruppamento 14 Marzo – la coalizione antisiriana all’opposizione, della quale fanno parte i sunniti e il settore cristiano maronita sopra ricordato – e la maggioranza di governo – costituita a sua volta dagli sciiti e dai cristiano maroniti legati al generale Aun.
L’attentato non giova all’attuale governo di Beirut che, pur controllato dagli Hezbollah, non esclude la responsabilità di Assad nell’attentato. Lo scontro potrebbe ora degenerare in un nuovo conflitto armato tra due mondi libanesi – uno pro, l’altro anti occidentale – che allo stato attuale appaiono inconciliabili. Attenzione: non si tratta più dell’antico conflitto religioso tra cristiani da un lato e musulmani dall’altro. Bensì di uno scontro per il potere che vede protagonisti clan diversi, spesso appartenenti agli stessi gruppi religiosi. In Libano sono divisi i cristiani così come sono divisi i musulmani. Si può escludere che il Clan Hariri – alleato dei Clan maroniti più oltranzisti come quello dei Gemayel – la famiglia dominante della comunità sunnita il cui principale esponente fu ucciso nel 2005 in un attentato che ricorda quello di due giorni fa, non stia cercando a sua volta di sfruttare lo scontro tra sunniti e alawiti di Assad nella vicina Siria per recuperare il controllo politico-militare in Libano? Magari coinvolgendo a questo punto gli Hezbollah, i “nemici sciiti”, in uno scontro che potrebbe allargarsi a macchia d’olio a tutta la regione?
Decifrare il puzzle libanese non è certo facile. Così come non è facile intuire l’intreccio tra la situazione in Medio Oriente e l’esito della battaglia elettorale negli Stati Uniti che vede visioni ben diverse sul come affrontare il braccio di ferro con il regime degli ayatollah sfruttando eventualmente a proprio vantaggio le lotte interne libanesi. Per non parlare del quadro politico israeliano, più che mai incerto. E’ chiaro, in ogni caso, che oggi il Libano può servire a diversi progetti, anche a quelli più deliranti. Ecco perché non è facile rispondere alla domanda angosciosa che Nayla e tanti libanesi di pace si pongono in questo momento: ora cosa ci aspetta? Resta un’esile speranza: che l’instabile equilibrio libanese regga a questo ennesimo trauma.