Editoriale da santalessandro.org
Settimanale on line della Diocesi di Bergamo
Sabato, 25 febbraio 2023
Giovanni Cominelli
Lezione ucraina: il difficile apprendimento degli Italiani
Gli Italiani fanno fatica a trarre le lezioni necessarie che arrivano dal fronte orientale, se è vero che la maggioranza è sempre meno favorevole all’invio di armi in appoggio alla Resistenza ucraina.
Quali le cause di queste crescente tiepidezza, nonostante l’impegno senza tentennamenti di Giorgia Meloni?
Se l’ordine internazionale e, quindi, la pace sono fondati sul riconoscimento della sovranità territoriale degli Stati – si chiama diritto internazionale, frutto di un contratto globale tra gli Stati – perché la maggioranza dell’opinione pubblica italiana, registrata dai sondaggi, non vede la violazione della sovranità ucraina da parte dei Russi come una lesione inaccettabile del diritto internazionale e un pericolo per tutti, noi compresi? E perciò non vede come legittimo e necessario l’aiuto in armi richiesto dagli Ucraini?
Forse, una prima ragione è “l’abitudine” ai comportamenti delle grandi e piccole potenze. In effetti, tale violazione non è la prima volta che accade. I casi più noti, a partire dagli anni ’50: da parte dei Cinesi (Corea 1950), degli Israeliani, Francesi e Inglesi (Suez 1956), di Israele (Egitto, Siria e Giordania 1967) degli Americani (Vietnam 1964), dei Cinesi (Vietnam 1979) dei Russi (Afghanistan 1979), dell’Iraq (Iran 1980), degli Americani (Iraq 2003), dei Russi (Cecenia 1999, Georgia 2008, Donbass 2014, Crimea 2014, Ucraina 2022).
Una seconda ragione è la filosofia geopolitica neutralista degli Italiani quale corre nell’opinione pubblica media, sui giornali, sui social, nei dibattiti.
È condizionata dalla sconfitta del 1940-45: sconfitti, sorvegliati e tutelati. Così, protetti dallo scudo della NATO, abbiamo potuto coltivare il nostro Welfare, un consistente anti-americanismo che viene da molto lontano e, in alcuni consistenti settori politico-ideologici, un compiacente filo-sovietismo. Se le tracce ideologiche sono diventate sempre più labili, il fondo culturale e psicologico è rimasto: l’idea che il mondo è fuori di noi, non portiamo nessuna responsabilità della sua condizione attuale, non siamo protagonisti. Possiamo tentare di esserlo nel Mediterraneo, il Mare nostrum. Il neutralismo è il nostro ultimo vestito, ancorché pronto al ricambio opportunistico e contingente delle alleanze. È l’antica malattia di un Paese debole, arrivato in ritardo all’unità nazionale e, a fine ‘800, al banchetto del colonialismo e dell’imperialismo. Così, dopo l’avventura disastrosa del Fascismo, la politica non è quasi mai stata “estera” – salvo nel periodo 1947-49 – è sempre e solo “interna” ed è stata praticata come una variabile dipendente propagandistico-ideologica della politica interna. L’ideologia neutralista copre per intero il tradizionale spettro destra/sinistra. Si chiama “pacifismo”, nelle versioni cattolica, vetero-comunista e apocalittico-catastrofista/ecologista, si autodefinisce “sovranismo” a destra con Salvini. Ci sarebbe anche una patetica versione berlusconiana, ormai inclassificabile. Quanto a Fratelli d’Italia, sono in transizione: stanno passando all’atlantismo e ad un europeismo debole, ma assistito dalla Nato. Sì, perché un’Europa delle patrie non può molto contro l’imperialismo politico-militare di Putin e quello commerciale di Xi Jin Ping.
In questo contesto, il diritto internazionale – dimensione ONU, Nato, UE – appare fatalmente aleatorio, non cogente, non interiorizzato. Conta il diritto “nazionale”, da provincia dell’Impero, fino ad ipotizzarne il primato rispetto a quello europeo.
La terza ragione della dura cervice degli Italiani rispetto alla lezione ucraina sta nella scarsa consapevolezza pubblica di che cosa significhi “democrazia liberale”. Non sono lontani i giorni in cui Salvini, avvolto nella felpa con foto militare di Putin, dichiarava: ”Cedo due Mattarella per mezzo Putin”. Perché Putin è uno che decide subito e la decisione di trasforma in evento. Eccetto proprio a partire dal 24 febbraio 2022…
Né sono lontani i tempi in cui Grillo e successori annunciavano l’apertura a scatoletta del Parlamento. Nella bassa stima di cui gode la democrazia tra noi si sono condensate le pulsioni populiste degli ultimi decenni, della cui insorgenza il deficit costituzionale di governabilità è stato il motore. Insomma, in Italia la democrazia rappresentativa non gode di buona fama. Così gli Italiani faticano a comprendere che lo scontro sanguinoso in atto tra Ucraini e Russi abbia quale posta in gioco esattamente non solo la libertà di scegliersi il regime che preferiscono, ma anche di adottare un regime democratico-liberale come tale – come hanno fatto dopo Euromaidan del 2014 e come hanno ribadito con il 74% dei voti a Zelensky nel 2019. Sovranità nazionale-territoriale, libertà, regime democratico-liberale all’europea sono, in Ucraina, un unico pacchetto. Vale la pena difendere con il sangue questo intreccio? No, secondo molti italiani; no, secondo molti di coloro che sono sfilati nella notte del 23/24 febbraio nella marcia Perugia-Assisi, esibendo slogan che coerentemente inneggiavano alla resa. Dietro questo pacifismo ideale, che si autocolloca ai vertici dell’etica, sta il cinismo reale di chi pensa che non ci sia nessun valore per cui valga la pena di morire, dunque nessun valore per cui valga la pena di vivere. L’invito alla resa è eticamente gelido. Nella manifestazione del movimento pacifista del maggio 1983 a Berlino, contro i Pershing e i Cruise, che erano stati schierati contro gli SS20 sovietici, correva lo slogan “Besser rot als tot”: “Meglio rossi che morti”. Oggi l’imperialismo di Putin non è più “rosso”, è russo e basta. Dunque, “Meglio Russi che morti”?
È la posizione ambiguamente sottesa anche al lungo articolo di J. Habermas, tradotto su Repubblica il 19 febbraio, nel quale denuncia la pericolosa condizione degli Europei, che si troverebbero a camminare come sonnambuli sull’orlo dell’abisso nucleare, e chiede di costruire le condizioni per un negoziato. Il filosofo tedesco si chiede: “L’obbiettivo è vincere la guerra o non perderla?”. È la sindrome NIMBY, praticata a livello euro-continentale. Ma dopo l’Euromaidan, è difficile non considerare l’Ucraina come parte del nostro giardino.
L’obbiettivo è il ripristino dello status quo antea, alla luce della Carta delle Nazioni unite del 24 ottobre 1945. La libertà non è negoziabile né si può chiedere agli Ucraini di farlo, in nome della nostra sicurezza. L’obbiettivo è far tornare i Russi nei loro confini. A loro non si possono offrire pezzi dell’Ucraina, peraltro non consenziente, in cambio di una momentanea tregua.
L’ideologia della resa è il punto più basso dell’etica occidentale. Ed è certamente paradossale che muova dal pacifismo cattolico, che, sulle orme di Putin e di Kirill, leva accuse contro il degrado etico dell’Occidente, contro l’individualismo, contro l’abuso di ogni libertà, contro la libertà egoistica.
La solidarietà armata verso gli Ucraini nasce, viceversa, dalla consapevolezza del “nuovo Occidente” – per usare l’espressione di V. E. Parsi – di doversi costruire una “comunità europea di destino”, che non ha al centro la Nazione, lo Stato mono-etnico, ma la libertà, il regime democratico, la sicurezza, il rispetto dei confini sovrani dentro un loro sovraordinamento in un disegno continentale più grande, quello europeo e mondiale.