«Ma è veridico il detto: “Il vaso vuoto è anche il più sonoro”». (William Shakespeare, Enrico V, Atto IV, scena IV)
«Un disastro è quello che ci vuole per vedere chiaro nelle cose». (Michelangelo Antonioni, Tonino Guerra, Edward Bond, Blow-up, 1966)
Due Boeing 767, il volo «American 11» e il volo «United 175», dirottati contro le Torri Gemelle del World Trade Center di New York. I grattacieli crollarono nel giro di 102 minuti. Tremila vittime. Una devastante azione di guerra, impossibile definirla altrimenti, con un «effetto collaterale» dalla portata simbolica non meno epocale. Gli Stati Uniti d’America hanno brevettato il detto The Show Must Go On, «lo spettacolo deve continuare». Si sottintende: qualunque cosa accada dietro le quinte oppure oltre il palcoscenico. Ma l’11 settembre 2001 lo spettacolo venne surclassato dalla realtà: uno shock da far impallidire i già miserabili reality show dl giovedì sera.
Osama bin Laden, il mandante confesso dei kamikaze che si erano impadroniti dei Boeing, appare nelle immagini cui si conceda come un uomo gracile e, se non fosse per le armi con cui talora ha posato, persino «mite». E’ un miliardario arabo ossessionato dal fideismo islamico, una «maschera» da figlio di papà ingrigita anzitempo, che, si direbbe, persegue un’ineffabile redenzione nella violenza e nel romitaggio, o, forse, una vendetta inconscia, visto che perse uno dei suoi innumerevoli fratelli, di poco più grande di lui, in un incidente aereo negli Stati Uniti.
Quella «maschera», all’indomani dell’11 settembre 2001, sarebbe divenuta il simbolo stesso del terrore, capace di colmare gli schermi televisivi dello spettacolo più terribile e impressionante: la morte in diretta. Si trattò di una «diretta» non priva di macabri dettagli. Tutti ricordiamo l’alternarsi di piani drammatici nel terribile «film»: il primo aeroplano s’infila alle 8.46 nella Torre Nord[1], che sarebbe stata l’ultima a crollare, provoca una gigantesca fiammata e l’apocalittico rogo, seminando il panico nel grattacielo e poi nelle strade sottostanti. Intanto, alle 9.03, il secondo aereo si schianta contro l’altra torre. Il terrore, la suspense, l’intervento in massa dei vigili del fuoco il cui corpo di stanza nella metropoli americana verrà decimato, la «scelta» di alcuni sopravvissuti all’impatto di lanciarsi dalle finestre per sottrarsi all’inferno delle fiamme, il primo crollo, il secondo crollo, la valanga di polvere e detriti, la fuga da Manhattan a piedi lungo i ponti… Quanti film in uno abbiamo visto (da) quel giorno? Inferno di cristallo, Die Hard-Trappola di cristallo, 1997 Fuga da New York[2].
Tuttavia, ben più di quel che si vide, ha sostenuto Jacques Derrida, è ciò che l’11 settembre non si vide ad agire in noi con inusitata violenza[3]. Un corredo di «invisibilità» che include i corpi straziati o i resti irriconoscibili delle vittime, in effetti mai mostrati in televisione, ma soprattutto il prima e il dopo dell’impatto degli aerei contro i grattacieli. «Decostruendo» l’evento da par suo, il filosofo francese si chiedeva: cosa è successo nei Boeing? Cosa nelle Torri? E cosa possiamo aspettarci dopo un attacco del genere? Quale immagine siamo in grado di attribuire all’angoscia generata dall’11 settembre? Non sono stati certo i tremila morti in quanto tali, argomentava, a impressionarci come non mai, perché quasi ogni giorno nel mondo ci sono vittime di una qualche catastrofe senza che ciò modifichi la nostra percezione del pericolo. A terrorizzarci, da allora, è piuttosto l’impossibilità di offrire dei contorni al «non visto» dell’11 settembre. E’ appunto la sua «invisibilità», perché stentiamo a distinguere un’immagine: non una a bordo degli aerei, non una interna alle Torri, non una, nitida, di coloro che hanno determinato ed eseguito l’attentato. E’ questa indistinzione, secondo Derrida, a porci di fronte al caos, in balia del caos.
Così, in una tersa mattinata settembrina, cambiava alla radice il rapporto tra la guerra e l’immaginario collettivo. Da sempre – basterà rammentare l’Iliade – la guerra è la narrazione per eccellenza, è una trama connettiva fra le generazioni che si tramandano ed eternano odî, impermeabili alle ragioni del presente, verso popoli lontani o più spesso confinanti. Nel XX secolo le comunicazioni di massa – la radio, il cinema, la televisione, internet – hanno ribadito il copione bellico, tuttavia piegandolo progressivamente alla natura prima propagandistica e poi mercantile dell’industria culturale. Inoltre, almeno a partire dalla seconda guerra mondiale[4], i mass media hanno avuto un ruolo nella battaglia, sono divenuti un’armata immateriale, che, nel caso del Vietnam, si tramutò in una sorta di «quinta colonna». Il cinema e il giornalismo statunitensi, infatti, sferzarono la Casa Bianca e persuasero l’opinione pubblica americana che stava pagando un costo troppo alto in vite umane, contribuendo in maniera determinante al ritiro dell’esercito USA dal Vietnam.
L’11 settembre, invece, l’attacco è spettacolo, lo ingloba e se ne alimenta, tanto più negli esiti che, ha ragione Derrida, escludono la produzione di immagini realistiche, in favore della suggestione televisiva dell’evento. La dichiarazione di guerra del terrorismo islamista non viene consegnata agli ambasciatori dei paesi considerati nemici, ma allo sguardo di ciascuno di noi, alla nostra memoria e al nostro inconscio[5]. E’ un incubo planetario, certo, eppure confezionato affinché agisca da calamita onirica e concreta delle paure di ciascuno. Come accadde a suo tempo per il Titanic, ancora in anni recenti soggetto di un kolossal di James Cameron («Il WTC è il nostro Titanic», dichiarò all’indomani il sindaco di New York, Rudolph Giuliani). O come succede per la Shoah, le cui camere a gas, dopo sessant’anni – testimoniano alcuni psicoanalisti – vengono sognate da molti ebrei delle generazioni successive ad Auschwitz e non solo dai sopravvissuti allo sterminio nazista o dai loro eredi.
L’11 settembre è un atto di nichilismo estremo che produce un cratere ampio quattro ettari e profondo venti metri nella più fitta foresta simbolica dell’Occidente, Manhattan, dove lo spazio viene proverbialmente compattato e proiettato verso l’alto pur d’essere riempito al massimo, non solo di gente, ma appunto di segni. Colà è stato fatto il vuoto, a due passi dalla Borsa di Wall Street che incamera i frutti della «foresta», li valorizza e li distribuisce ai più forti o ai più fortunati. (…)
(Tratto dal volume “Visioni americane –
NOTE:
[1] Fra le numerose ricostruzioni giornalistiche dell’11 settembre 2001 e dei mesi successivi, vogliamo almeno ricordare American Ground di William Langewiesche, trad. it. Roberto Serrai, Adelphi, Milano 2003. L’autore, corrispondente di «The Atlantic Monthly» sul quale sono apparsi i tre reportage confluiti nel volume, ricostruisce la dinamica dei crolli e si avventura in un viaggio rigorosamente testimoniale negli inferi di Ground Zero, l’area delle rovine del World Trade Center. Sul versante della «fiction», l’evento è stato narrato con una partecipazione emotiva di rara presa nel romanzo Windows on the World di Frédéric Beigbeder, trad. it. Fabrizio Ascari, Bompiani, Milano 2004. «Windows on the World», finestre sul mondo, era il nome del ristorante al 107° piano della North Tower, dove il protagonista del romanzo di Beigbeder ha portato i suoi figli a colazione quel mattino fatale. Il «diario» delle ultime due ore in cima alla torre colpita, nel libro, si alterna con le riflessioni dell’autore scritte, è dichiarato, a un tavolino del «Ciel de Paris», ristorante al 56° piano della Tour Montparnasse nella capitale francese. Ed è uscito a fine gennaio 2006 The Good Life di Jay McInerney, che s’inizia la sera del 10 settembre 2001 e prosegue dal 12 settembre in poi in una giostra di personaggi e situazioni calamitati da Ground Zero (Knopf, New York 2006).
[2] Sui «miti e fantasmi dell’immaginario americano» rispetto all’aggressione subita dall’esterno, si può consultare uno studio di Francesco Dragosei, Lo squalo e il grattacielo, il Mulino, Bologna 2002.
[3] Jacques Derrida ha dedicato all’11 settembre 2001 alcune pagine aggiuntive del discorso, scritto nell’agosto precedente e letto il 22 settembre di quell’anno a Francoforte in occasione della cerimonia di consegna del premio Theodor W. Adorno, assegnatogli per il 2001. Il discorso integrale è pubblicato in italiano col titolo Il sogno di Benjamin (trad. Graziella Berto), Bompiani, Milano 2003. Inoltre, Derrida concesse una lunga intervista televisiva sul tema a Enrico Ghezzi, in cui si sofferma, appunto, sull’«invisibilità» dell’evento. La videointervista è stata mandata in onda su Raitre nel corso del programma Fuori Orario la notte fra il 9 e 10 ottobre 2004, a mo’ di tempestivo omaggio al filosofo scomparso poche ora prima. Sul tema, vedi anche il dialogo a distanza fra Jacques Derrida e Juergen Habermas in Filosofia del terrore, a cura di Giovanna Borradori, Laterza, Roma-Bari 2003.
[4] Cfr. Paul Virilio, Guerra e cinema. Logistica della percezione, trad. it. Dario Buzzolan, Lindau, Torino 1996.
[5] Ha scritto Susan Sontag: «Un evento diventa reale – agli occhi di chi è altrove e lo segue in quanto “notizia” – perché viene fotografato. Ma anche una catastrofe di cui si ha esperienza diretta finisce spesso per sembrare stranamente simile alla sua rappresentazione. L’attentato al World Trade Center dell’11 settembre 2001 è stato descritto come “irreale”, “surreale”, simile a un film”, in molte delle prime testimonianze fornite da ci era scappato dalle torri o aveva osservato da vicino quanto stava accadendo. (Dopo quarant’anni di film catastrofici hollywoodiani ad alto costo, l’espressione “sembrava un film” pare aver sostituito la formula con cui i sopravvissuti a una catastrofe erano soliti esprimere l’impossibilità di assimilare in tempi brevi ciò che avevano vissuto: “Sembrava un sogno”». Cfr. Davanti al dolore degli altri, trad. it. Paolo Dilonardo, Mondadori, Milano 2003, p. 18.