LA BELLA CONFUSIONE

Oscar Iarussi

Giornalista e saggista.

Leone di frontiera tra cinema e realtà. Il verdetto di Venezia

Leone d’oro italiano. Quindici anni dopo Così ridevano di Gianni Amelio, il massimo riconoscimento della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia viene finalmente assegnato a un film tricolore, Sacro GRA di Gianfranco Rosi. Vero è che dai festival dovrebbe essere bandito il patriottismo, ma anche a Cannes i francesi festeggiano la Palma sciovinistica e non v’è alcunché di male, anzi, nel gioire per una vittoria “in casa”. Per certi versi è uno di quei segnali di riscatto nazionale, come le affermazioni sportive, che vanno di là dalla dimensione specifica e di cui abbiamo un certo bisogno.

Il Leone va a uno dei due documentari presenti nel concorso (l’altro era l’americano The Unknown Known di Errol Morris su e con Donald Rumsfeld). Sacro GRA racconta personaggi e situazioni del Grande Raccordo Anulare di Roma ed è il frutto di anni di indagini paesaggistiche, urbanistiche e antropologiche. Il regista Rosi, nato ad Asmara nel 1964 e con doppia nazionalità italo-americana, ha certo uno sguardo lucido, ma tutt’altro che “freddo”. Il suo film, s’è scritto nei giorni scorsi, riserva un gusto dell’episodio sapido e una capacità di (far) sorridere grazie a stralci visionari quasi felliniani. Il botanico impegnato contro il Punteruolo rosso delle palme, l’”anguillaro” pronto a filosofeggiare, il conte decaduto e il principe un po’ “figlio di”, sono alcuni fra gli eroi/antieroi della vita quotidiana lungo il Raccordo. Facce letteralmente “prese dalla strada” che conquistano con la loro autenticità, rilanciando la nostra preziosa tradizione del neorealismo e del “cinema del reale” come oggi si preferisce definire il documentario.

Taluni ritenevano che il presidente della giuria  Bernardo Bertolucci avrebbe spinto per un verdetto “nostalgico”, magari sotto il segno di quella Nouvelle Vague parigina che gli è molto cara, assegnando un riconoscimento fra i maggiori a La Jalousie di Philippe Garrel, del resto assai apprezzato qui al Lido. Invece Bertolucci e i “suoi” giurati hanno scommesso su una nuova frontiera del cinema e dei festival stessi, ovvero sulla possibilità/necessità di non distinguere la fiction da forme e pratiche  altrettanto narrative: la testimonianza, l’inchiesta, la ricostruzione storica o giornalistica degli eventi. In tal senso Venezia 70 indica una strada, che altri potranno percorrere o meno, ma è un altro segnale chiaro.

Al tempo stesso, la giuria pare aver concentrato l’attenzione sulla coerenza linguistica dei film, sul lavoro estetico degli autori e sulla alterità del cinema rispetto a dimensioni artistiche più corrive o arrendevoli rispetto al “pensiero unico” della televisione. Senza però sottovalutare le tematiche dei film. In filigrana, il verdetto palesa e ribadisce la cinefilia pugnace di Bertolucci, il più italiano (quasi “verdiano”) dei nostri autori, ma anche il più internazionale grazie alla sua curiosità per mondi e modi lontani, da Parigi alla Cina, dal Sahara al Tibet. Una curiosità che fu ripagata con i nove premi Oscar a L’ultimo imperatore nel 1988.

Così, nel palmares di Venezia 70 trovano posto alcuni film molti diversi fra loro, ma accomunati dall’essere “estremi” nei tempi del racconto lenti, teatrali, riflessivi se non addirittura contemplativi. Sono: Cani randagi del taiwanese Tsai Ming-liang (Gran Premio della Giuria), il brechtiano La moglie del poliziotto del tedesco Philippe Groening (Premio speciale della Giuria) e, con ben due premi, Miss Violence del giovane greco Alexandros Avranas (Leone d’argento e Coppa Volpi maschile a Themis Panou). Storie di crisi esistenziale o sociale, parimenti centrate sulla violenza familiare ai danni delle donne e dei bambini: un j’accuse netto levatosi durante le giornate della Mostra. Mentre un altro film su un figlio perduto e ritrovato troppo tardi, la superlativa commedia Philomena del britannico Stephen Frears, si è aggiudicata il riconoscimento per la migliore sceneggiatura a Steve Coogan e Jeff Pope.

Infine, ancora l’Italia: la Coppa Volpi per la migliore attrice è andata all’ottuagenaria Elena Cotta, una delle contendenti con sguardo fiammeggiante e senza pronunciare parola, in Via Castellana Bandiera di Emma Dante. Dopo una vita dedicata al teatro e agli sceneggiati, nella leggendaria Compagnia dei Giovani con Giorgio De Lullo e Rossella Falk o al fianco di Alberto Lupo, Cotta fa centro alla sua prima passerella veneziana.

(Articolo pubblicato sulla “Gazzetta del Mezzogiorno”, 8 settembre 2013)

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