Una vecchia rubrica de La Settimana Enigmistica, intitolata “vero o falso?”, pone uno dei problemi più importanti, soprattutto nell’epoca dei computer. Il problema di cui parlo è quello di educare a valutare l’importanza dell’avvicinarsi alla soluzione di un problema. Non è la stessa cosa sbagliare dicendo che due chilometri più due chilometri fa in totale cinque chilometri e sbagliare dicendo che i chilometri che ci separano dalla luna sono 384.399 mentre la risposta giusta è 384.400. Eppure la differenza è sempre di un chilometro.
Eric Salerno ha fatto il secondo errore, quando ha pubblicato un libro – bellissimo- intitolato “uccideteli tutti”. La soluzione del problema che angustiava allora e ancora angustia molti era quasi trovata. Quasi… Ma una volta avvicinatici alla soluzione è più facile trovarla e quel libro ha certamente aiutato a capire che in questo nostro tempo la soluzione del problema percepito da molti non è “ucciditeli tutti”, come recita il titolo del libro di Eric Salerno; quella soluzione è “uccidiamoli tutti”. Così procedendo, ad esempio, si potrebbe pensare di risolvere il problema dell’islam: ammazzandoli tutti. Ammazzarli tutti non vuol dire non ammazzarne anche altri. Sono i “danni collaterali”. L’importante è trovare il modo per risolvere il problema, che poi ci sia un costo è ovvio. Oggi inoltre esistono bombe che possono uccidere l’uomo senza danneggiare gli edifici e, soprattutto, le infrastrutture adiacenti e circostanti. Così si potrebbe uccidere tutta l’umanità presente in Libia – per esempio- senza arrecar danno agli impianti petroliferi, alle pipe-line o quanto altro di utile esista in quel Paese. Il problema, vedendola in termini di civiltà, è di più facile soluzione rispetto allo stesso problema visto però in altri termini, ad esempio di affluenza. Decidere di uccidere tutti i non abbienti è più difficile, non solo perché costoro si infiltrano anche nei territori abitati dagli abbienti, ma anche perché un certo quantitativo di non abbienti risulta comunque necessario per gli abbienti. Mentre le infrastrutture libiche, una volta sanificato l’ambiente, potrebbero essere attivate da personale non indigeno dando così sollievo anche alla disoccupazione esistente in altre aree del pianeta, le miniere dalle quali viene estratto il materiale con cui si fabbricano gli apparecchi di telefonia mobile, per non gravare troppo sui costi di produzione degli stessi, richiedono una percentuale di non abbienti da utilizzare in esse a costi molto contenuti.
Eric Salerno si è reso conto di questo deficit nella teoria dell’ “uccidiamoli tutti”, che pure aveva denunciato con accuratezza in merito ai nostri trascorsi coloniali nazionali in Libia, in modo specifico in ordine agli ebrei libici internati nel campo di concentramento di Giado, e così ha deciso di guardare oltre questo orizzonte. Il suo nuovo libro, “Orizzonti perduti, orizzonti ritrovati”, è infatti un libro che cerca il futuro tornando indietro per capire quale sia l’altra opzione. Par di capire che abbia usato così il tempo del lockdown.
Quello di Eric Salerno non è un nome qualsiasi nel panorama giornalistico italiano: Paese Sera e Il Messaggero, Gerusalemme e Tripoli: sono solo alcuni tasselli di una storia lunga e importante, raccontata in modo diverso dal solito. Un altro suo libro non mette in prima pagina, ad esempio, un altro mito del giornalismo di guerra, il racconto delle “suole delle scarpe consumate”. No. Il suo libro su un conflitto che ha seguito da Gerusalemme si intitola “La guerra vista dalla finestra”. Può permetterselo perché le suole le ha consumate, spesso nel deserto. Chi invece è stato solo in albergo, dietro una finestra, deve mettere in copertina delle suole ben consunte. Il Covid ha costretto Salerno a fermarsi e guardare se stesso, i mondi che ha raccontato, dalla finestra della sua vita. Possiamo ucciderli tutti? Diciamo la verità: il desiderio c’è ancora, e la riduzione dell’interesse nazionale a calcolo di bottega ha aiutato molto. Se volete essere cinici, sembra avvertirci Eric Salerno, sappiate esserlo almeno in modo non autodistruttivo. E cita Giulio Andreotti, al quale chiese se anche per lo Yemen, come per la Germania, “ il suo amore fosse tale da preferire che ce ne siano due”. Forse non aveva torto, comunque non era un ragionamento da bottegaio.
Il viaggio sembra partire dalla più logica delle domande: avevamo ragione a volerli uccidere tutti? Per trovare il modo pensare al nostro interesse in modo un po’ meno bottegaio conviene entrare nel deserto con Eric Salerno: “Fu il passaggio su pista tra Tunisia e Algeria – con Stefania e Andrea che urlavano per la paura e Lina che cercava di tranquillizzarli – a regalarci uno dei tanti episodi di accoglienza che l’Africa ci offrì in quegli anni. Ci lasciammo la tempesta alle spalle, ma non il suo impatto. La vernice sul muso della Giulia era scomparsa, raschiata via dalla sabbia. E il motore girava con un pistone in meno. Ci fermammo da un meccanico, una piccola azienda di famiglia. «Devo aprire tutto e non so se posso riparare il danno», il verdetto, non certo confortante, del giovane. «Siamo a ridosso della festa» spiegò «e devo chiudere. Ma venite a casa. Mamma sta preparando il pranzo.» Mangiammo montone e verdure e ci riposammo prima di andare a cercare un albergo dove trascorrere la notte. Purtroppo per la Giulia c’era poco da fare e il resto del viaggio – fino a Timimoun e ritorno in Italia – lo facemmo con il motore ansimante e un enorme bagaglio di esperienze e ricordi. Come quando Andrea, in un grande mercato all’aperto, comprò un panino – «È tonno e pomodoro» gridò soddisfatto prima di metterlo in bocca – scoprendo troppo tardi che il pomodoro era harissa, ossia peperoncino puro”. Qui ho trovato la nostra illusione, da figliastri dei Lumi, che la felicità sia una sola, uguale in tutto il mondo. Come la penicillina ci cura tutti ovunque, così come la legge di gravità è la stessa ovunque, possiamo essere tutti felici sempre e solo in un modo. Dunque la scomparsa di una finta felicità, la sanitarizzazione degli ambienti e delle culture, è un bene. La scomparsa dell’harissa un bene maggiore. A questa idea dei figliastri dell’illuminismo i figli della colonizzazione magari cattolicissima ne hanno opposta un’altra: quella dello zoo. Lo vedo ogni giorno in un manifesto del Touring club francese del 1910 che invita a viaggiare in Algeria e Tunisia tra “ rovine romane, moschee, oasi, gole pittoresche, foreste e trogloditi”. Immagino che i trogloditi fossero anche quelli incaricati di portare il turista sdraiato in portantina, non il meccanico dal quale si accetta anche l’invito a pranzo. Ma è ovvio che gli zoo devono essere piccoli, le fosse comuni scoperte recentemente in Canada accanto a scuole elementari cattoliche per figli dei popoli nativi lo spiegano bene. Ma lo stesso vale per gli infelici che non accettano l’unicità della felicità. E’ un po’ la prima lezione appresa da Salerno, che ricorda un particolare del suo primo viaggio algerino e poi ci riflette su, oggi: “Arabi e berberi non si amavano. Non si erano mai amati. E non si amano nemmeno oggi, ma l’Algeria e tutti i suoi abitanti che avevano combattuto unito contro il colonialista, erano accoglienti, allora. Erano accoglienti fino all’inverosimile persino gli agenti di polizia. Come il venerdì – giorno di festa, tarda mattina, sfinita da un’attraversata sahariana in mezzo a una tempesta di sabbia – in cui ci fermammo di fronte al grande edificio coloniale del governatorato di Ghardaia per chiedere dove trovare acqua potabile, cambiare soldi e acquistare qualcosa da mangiare. Il giovane in divisa ci osservò con sorpresa, gli occhi pieni di compassione. I nostri volti erano quasi spettrali per la sabbia bianca e rossa che li ricopriva. «Venite» disse nel suo francese appena abbozzato, facendoci accomodare nell’edificio dove trovammo dell’acqua raffreddata da bere a volontà (sapeva di latte di magnesio ed ebbe lo stesso effetto per le successive ventiquattr’ore) e una doccia dalla quale uscimmo mezz’ora più tardi completamente rigenerati. «Prendete questi soldi algerini» ci disse, vedendoci finalmente puliti. «Tra un po’ apriranno le botteghe e potrete comprare qualcosa.» Non volle i nostri franchi e, ancor meno, lire e dollari, ma per fortuna qualche ora più tardi trovammo da cambiare e glieli restituimmo.
Oggi cosa riserva l’Algeria a turisti o grandi viaggiatori? Gentilezza, forse sì, ma per il resto basta leggere solo una parte degli avvertimenti forniti dall’unità di crisi della Farnesina a chi volesse recarsi nel paese nordafricano:
Considerato il complessivo quadro di sicurezza:
– si sconsiglia nella maniera più assoluta di intraprendere viaggi nelle regioni algerine confinanti con Mali, Niger, Libia, Mauritania, Marocco Meridionale (Paesi con cui la frontiera è chiusa), Tunisia e nelle province di Djanet, Illizi, Tamanrasset;
– è sconsigliato, se non strettamente necessario, recarsi in viaggio nella regione di Timimoun; nella regione della Cabilia, in particolare nelle province di Tizi Ouzou, Boumerdès, Bouira, nonché nel‐ le regioni di JiJel e Bejaia; nel nordest del Paese, in particolare nelle regioni di Tebessa e El Oued; nelle regioni di Ain Defla, Medea, Sidi Bel Abbes; nei campi saharawi di Tindouf. Si raccomanda di prendere contatto con l’Ambasciata d’Italia ad Algeri prima di programmare un viaggio nella regione dei suddetti campi per informarsi sugli sviluppi del quadro di sicurezza, nonché nella località di Ghardaïa, soggetta in passato a episodi di scontri interetnici.
Gli spostamenti professionali e turistici sono possibili in tutte le altre zone, previo contatto con l’Ambasciata, per informazioni sulla situazione di sicurezza.
Ossia meglio stare a casa, guardare qualche documentario sul piccolo schermo diventato negli anni sempre più grande e «intelligente», e sognare? Fare il turista o il più tranquillo e privilegiato viaggiatore è sempre più difficile e, molto spesso, più pericoloso”.
Gli incidenti negli zoo accadono di sovente; le bestie feroci alle volte lo sono davvero e se qualcuno cade nel loro recinto i giornali raccontano di come sia stato sbranato il malcapitato. Anche negli zoo pensati dai colonialisti o dai figliastri dell’illuminismo per trogloditi e chi rifiuti le norme della felicità unica e universale può accadere qualche brutto incidente. E questo ci obbliga a ricordare un altro problema, persistente. Quando scoprirono la fratellanza gli illuministi non cancellarono il padre comune: certo, per loro era l’Essere Supremo, ma sempre uno e comune a tutti. Di qui ritennero, giustamente, di procedere alla ricerca dell’evoluzione umana. Possibile credere ancora alla fiaba di Adamo ed Eva? L’evoluzione però non è stata sempre fraterna. Certo evoluzionismo, figlio di “libertà, uguaglianza, fraternità” ha prodotto anche gli studi di fisiognomica, e alcuni, armati di compasso e matita, sono andati a studiare le fronti di alcuni africani, per trovare lì l’anello mancante tra l’uomo e la scimmia. Un orizzonte suggestivo, che rientra nel viaggio di Eric Salerno, che per me è cominciato quando aveva quasi individuato la solo ricetta di chi creda nella felicità universale e uguale per tutti: gli altri “uccidiamoli tutti”. Il suo racconto dei compassi della civiltà di certi studiosi di fisiognomica arriva dal Mali, dove ricorda di d’essere andato tanti anni fa e ci consegna un racconto scritto da un nero che ha conosciuto lì;queste le sue parole: “La mia fuga coincise con il compimento dei miei diciotto anni. Ero riuscito a studiare e avevo imparato molto della nostra storia e anche del Corano. Erano gli anni precedenti la grande siccità. Il Mali era usci‐ to dal colonialismo da una decina d’anni ed ero angosciato dalle in‐ certezze tipiche della pubertà. I Griot, che qualcuno cominciava già a chiamare con i loro nomi originari, «finah» per quelli che raccontavano la storia, «jali» per i poeti‐musicisti, depositari e propagandisti delle conquiste moderne del nostro eroe nazionale, l’uomo della rivoluzione anticoloniale e del nuovo Mali, Modibo Keita, furono costretti al silenzio quando l’uomo in cui credevamo venne deposto dai militari e, in catene, spedito a nord di Timbuctù, in pieno deserto, dove le antiche miniere di sale di Taudenni, trasformate in prigione, facevano scempio di corpi e menti. C’era, nonostante tutto, ancora speranza nel futuro ma lavoro niente, e decisi di affrontare l’avventura, o meglio di infilarmi in quella corrente della storia che si chiama emigrazione e che trascina le genti verso sponde dove, per anni o per sempre, rischiano di sentirsi totalmente estranei o dove, perché anche questa è un’importante realtà, si amalgamano con le popolazioni locali alle quali portano in dote esperienze, cultura e tradizioni sovente complementari. Non fu difficile arrivare da Timbuctù fino a Gao. La pista era irta di ostacoli, sabbie mobili nelle quali affondavano le ruote delle macchine, spine, animali sonnacchiosi accasciati in mezzo alla via; ancora oggi è un percorso non facile, ma ebbi la fortuna di ottenere un passaggio su un camion. Io e altre venti persone, tutte arrampicate come mosche su una montagna di fetide pelli instabili e scomode che il mercante nigeriano aveva acquistato in cambio di stoffe e altri pro‐ dotti portati da sud. Gao, comunque, in qualche modo era ancora casa, stessa nazione, stesse genti, stesso passato.
L’ignoto, quello vero, mi attendeva oltre. Fare l’autostop per attraversare il Sahara, quello spazio sterminato che conoscevo appena per essere nato ai suoi margini estremi, costituiva una sfida. E dopo? Riuscire a passare dall’Algeria in Europa e imboccare la strada giusta per il mio futuro, o parte di esso. Avevo scelto come obiettivo la Francia dove viveva già un mio parente e perché tra le lingue che parlo c’è, ovviamente, anche il francese, dono, uno dei pochi, dei colonialisti. Eravamo agli inizi degli anni settanta, l’emigrazione africana verso l’Europa stava appena incominciando e se fossi riuscito ad arrivare a Parigi mi avevano convinto che trovare un’occupazione non sarebbe stato troppo arduo e forse, con un po’ di fortuna, sarei stato in grado anche di proseguire gli studi. […] Immaginate, dunque, un ragazzo africano di diciotto anni e pochi mesi appena, nato e cresciuto a Timbuctù, istruito al Corano e alle normali materie della scuola statale di stampo francese. Con una conoscenza del nostro passato, pieno di orgoglio ma anche di paura dello sconosciuto. Provate a immaginarlo seduto in cima a un camion sgangherato, tra strattoni e la puzza nauseabonda di pelli secche infestate dai vermi, mentre fatica a mantenersi in bilico. Pensavo al pericolo immediato e a quelli che sarebbero venuti in seguito. Pensavo al deserto da attraversare. Chilometri e chilometri di vuoto, poca acqua, poca gente, poche possibilità di sopravvivere se qualcosa fosse andato male. Giorni prima si era avuta notizia di un camion come il nostro rimasto bloccato accanto a un albero rinsecchito in quella parte del Sahara che chiamano Tenerè. Venti persone morirono di sete accanto al mezzo semisepolto dalla sabbia trasportata da tre giorni di vento incessante. Due africani come me, partiti a piedi dopo aver abbandonato il camion, riuscirono a raggiungere un’oasi. Sono vivi, se così si può dire, ma non sono più le stesse persone. Sole e sete e paura hanno bruciato le loro menti”. Molte pagine dopo Salerno torna proprio lì: “Quella strada tra Mali e Burkina percorsa anni fa in tutta tranquillità, oggi è in gran parte asfaltata ma il progresso, chiamiamolo così, ha portato con sé la violenza che i primi anni successivi alla decolonizzazione avevano contenuto. Le cronache di questi ultimi tempi sono stracolme di «incidenti» di una brutalità nuova, tragica, dal gusto arcaico. Le cronache faticano ad arrivare in Italia, ma gli esempi non mancano. A febbraio del 2019 i terroristi «islamici» assaltarono il villaggio di Kain, a circa 80 chilometri da Ouagadougou, non molto distante dalla capitale. Andarono casa per casa, uccidendo chi trovavano. Quattordici i morti, numerosi i feriti. Un paio di mesi dopo, le forze armate burkinabè, secondo le cronache, «neutralizzarono» – eufemismo per uccisero – 146 dei colpevoli. Fu uno dei tanti episodi simili che ancora oggi – siamo a metà del 2021 – vengono registrati dai media locali”.
Sono racconti di viaggio gli orizzonti di Eric Salerno? Certamente. E il viaggio è tornato ad essere quel che è, portare a passeggio il proprio sogno. Non esiste una natura del viaggiatore, né sogni identici. Il mio, suppongo, è molto diverso dal suo. Più monotematico di lui il mio sogno ha al suo centro uno zoo e io sogno di vederci entrare uno dopo l’altro i tiranni che ho conosciuto durante la mia vita: da Assad a Gheddafi, a tanti altri. Il sogno del viaggiatore Salerno per me è quello che ho trovato leggendo del suo incontro con il Guatemala. Non sono mai stato in Guatemala, non ho mai incontrato un guatemalteco, ovvio che questo capitolo sia stato tra i primi che ho letto e tra gli ultimi che ho riletto. Ma a portarmi qui è stato il titolo del capitolo: “il genocidio che non si voleva vedere”. E’ un po’ il sogno dei non viaggiatori, “uccidiamoli tutti”, no? Di quel genocidio non voglio raccontare quel che sarà meglio leggere nel libro, come tanto altro. Voglio solo citare l’esito odierno: “ Qualcosa sembrò migliorare dopo le denunce e le inchieste, ma omertà e corruzione hanno riportato il paese – con la sua classe dirigente incapace di rinnovarsi e ancorata al rifiuto di portare avanti le procedure giudiziarie contro i responsabili del genocidio degli anni ottanta – indietro di decadi. La capitale, come allora, è pericolosa, per i locali (almeno cinque giornalisti che osavano critica‐ re il governo sono stati ammazzati) come per gli stranieri, residenti e di passaggio. Tensioni in alcune aree rurali del paese (Santa Rosa e Cobán, oltre a San Marcos e Huehuetenango), dove la popolazione è contraria allo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali, hanno condotto a una intensificazione delle misure di polizia per ciò che il governo ama definire «mantenimento dell’ordine pubblico». E le zone vicine al confine con Honduras, El Salvador e Belize sono a rischio non solo per chi vi abita. Con l’aumento dei migranti provenienti dall’Honduras e che, come molti indios guatemaltechi, vogliono raggiungere gli Usa passando attraverso il Messico, tutte le zone di confine sono in una rischiosa tensione. Le vie principali che un viaggiatore o turista solitario potrebbe considerare tranquille sono spesso da evitare soprattutto dopo il tramonto, quando diventano padroni del vasto territorio rurale i cartelli della droga, che hanno trasformato il grande Parco nazionale della Laguna del Tigre, al confine con il Messico, in una specie di portaerei dove decine di piste di atterraggio accolgono i jet dei trafficanti. Cronache recenti parlano persino di assalti armati sulla Ruta al Pacifico, che percorsi molti anni fa senza paura né avvertire tensioni palpabili”.
In definitiva mi sembra che l’orizzonte di Eric Salerno sia l’orizzonte laico di chi si chiede se sia meglio pensare davvero di ucciderli tutti o capire duemila dopo Cristo e 230 anni dopo Parigi che dovremmo imparare a capirci, e sopportarci, tutti. Per riuscirci l’unico modo è conoscersi e riconoscersi fratelli perché diversi, destinati a non voler essere felici nello stesso modo, ma anche a non voler essere diversamente infelici.