Scuserete il titolo, evidentemente provocatorio! Ieri pomeriggio, quando iniziavano a profilarsi i risultati elettorali, era tuttavia mia intenzione rispondere con questa battuta – riservata da Philippe Noiret a un petulante Paolo Hendel in uno dei siparietti più divertenti di “Speriamo che sia femmina” – a chi mi chiedesse un’opinione sulle elezioni. Tuttavia, l’amor di battuta deve cedere il passo alla necessità improrogabile di una riflessione su quanto avvenuto.
Il dato incontrovertibile è uno: il PD ha perso. I numeri non contano! Ha perso perché ha dissipato un vantaggio che, solo un paio di mesi fa, sembrava incolmabile! Ha perso perché, pur avendo ottenuto la maggioranza relativa ha consegnato il paese all’ingovernabilità! Di conseguenza, con la sconfitta del PD, abbiamo perso tutti, indipendentemente da quale partito abbiamo votato.
Appellarsi all’”effetto Berlusconi” o all’imprevedibilità del voto grillino non vale: serve solo a cercare delle scuse, a discolparsi per una morte che sembrava tutt’altro che annunciata. Analogo discorso va fatto per chi imputa la debacle alla legge elettorale. Per avvalorare quanto si afferma, non occorre neppure richiamarsi alla norma costituzionale, che vuole la ripartizione dei seggi al Senato compiuta su base regionale (art. 57): basta la constatazione empirica: Berlusconi nel 2008 – con la stessa legge elettorale – è riuscito ad ottenere la maggioranza assoluta nelle due camere. Chi, dunque, invoca una rapida modifica del porcellum – comunque necessaria – e poi, subito, il ritorno alle urne compie un’operazione da illusionista, più ancora che da guaritore. Forse, più che una rincorsa alla modifica della legge elettorale (ammesso che nella composizione parlamentare che si insedierà, sia possibile trovare una formula che accontenti tutti), sarebbe opportuno mirare a una più profonda modifica dell’assetto parlamentare, che ponga fine a un bicameralismo perfetto che, per quanto offra alcune garanzie, sta ora mostrando pienamente il rovescio della medaglia: il rischio costante di blocco legislativo.
La ragione dei risultati elettorali, allora, non va cercata arrampicandosi sugli specchi dei tecnicismi: essa ha natura politica. Il PD ha perso perché ha ceduto ai suoi avversari, ha rinunciato a confrontarsi con i cittadini, e li ha inseguiti sul terreno del populismo. Un terreno su cui, data la sua natura intrinsecamente plurale, è – e non può non essere – sconfitto in partenza. Il PD deve rinunciare all’illusione di poter far politica parlando alle pance! Su quel terreno, Berlusconi e Grillo sono destinati a sconfiggerlo in partenza: sono loro i campioni delle pance moderne, di una società in cui i valori del lavoro sono stati quasi integralmente soppiantati da quelli dell’individuo.
Rispolverare vecchi valori, vecchie battaglie, vecchie glorie, questioni di principio, può essere un argomento sensibile per un elettorato informato, consapevole, appartenente a una storia politica. Insomma, quella base che il PD difficilmente perderà. Ma alle pance contemporanee non basta!
Il PD deve ora guardare oltre, riconoscere gli errori, fare tesoro di quanto sembrava già chiaro settant’anni fa agli autori del Manifesto di Ventotene: «Oggi è il momento in cui bisogna saper gettare via vecchi fardelli divenuti ingombranti, tenersi pronti al nuovo che sopraggiunge così diverso da tutto quello che si era immaginato, scartare gli inetti fra i vecchi e suscitare nuove energie tra i giovani», solo così potrà proporsi nuovamente come vera forza di governo. Certo, bisogna riconoscere che la via da percorrere non è affatto semplice e, questa volta, la domanda sul se lo sarà rimane aperta.
Andrea Pinazzi
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