Autonomia differenziata, un calvario. L’iter del Ddl Calderoli e le distorsioni del dibattito
Giovanni Cominelli·30 Gennaio 2024
Il 23 gennaio 2024 il Senato ha approvato il Disegno di Legge n. 615, presentato dal Ministro per gli Affari regionali e le Autonomie Roberto Calderoli e intitolato “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione”.
A chi legga per intero il testo della legge apparirà da subito chiaro che non avremo sul piatto l’autonomia differenziata all’indomani dell’eventuale approvazione della legge nell’altro ramo del Parlamento. Il DdL traccia la strada delle procedure, ma i contenuti sono tutti da decidere, il traguardo è lontano.
Se l’Art. 1 definisce i principi generali per l’attribuzione alle Regioni a statuto ordinario di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia in attuazione dell’articolo 116, l’Art. 2 subordina il riconoscimento dell’autonomia alla determinazione dei Livelli essenziali delle prestazioni (LEP) concernenti i diritti civili e sociali.
Questa subordinazione è conseguenza della Legge di Bilancio 2022. I LEP sono “la soglia costituzionalmente necessaria e costituiscono il nucleo invalicabile per rendere effettivi tali diritti su tutto il territorio nazionale e per erogare le prestazioni”. Funzionano quali forche caudine per le Regioni che vogliano autonomia nelle materie che loro rivendichino.
Una volta che la Regione abbia elaborato la domanda di autonomia, interpellando anche le Autonomie locali, si aprono, decorsi 60 giorni, i negoziati con il Governo, il quale “può limitare l’oggetto del negoziato ad alcune materie o ambiti di materie individuati dalla Regione nell’atto di iniziativa”. Il Comma 4 dell’Art. 2 chiarisce che “lo schema di intesa preliminare tra Governo e Regione è immediatamente trasmesso alla Conferenza unificata tra Stato e Regioni per un parere”. Di lì viene passato alle Camere per l’esame da parte dei competenti organi parlamentari, che si esprimono con atti di indirizzo, secondo i rispettivi regolamenti, entro 90 giorni dalla data di trasmissione dello schema di intesa preliminare, udito il Presidente della Giunta regionale interessata. È il Parlamento che decide.
L’Art. 3 affida al Governo la delega per la determinazione dei LEP. Il numero dei LEP da definire è di dodici: istruzione, ambiente, ricerca, salute ecc… La loro definizione si annuncia lunghissima e tormentata, tanto che il DdL concede due anni al Governo per adottare i relativi decreti attuativi. È facile prevedere che si tratterà di un calvario, anche perché la definizione del loro livello sarà operata con uno sguardo alla cassa. Che è vuota.
Alla fine della favola, in assenza di criteri oggettivi per la contrattazione tra Stato e Regioni, ciò che resta decisiva è la contrattazione tutta politica, basata su criteri di consenso elettorale e su mutevoli rapporti di forza.
Pertanto questa grande promessa di attuazione della Costituzione resta fatale ostaggio delle pulsioni politico-partitiche del momento.
Un dibattito allucinatorio
Se nel testo del Disegno si legge “Roma”, le parole della comunicazione politico-demagogica gli fanno dire “toma”. La sua approvazione in Parlamento è avvenuta tra l’esaltazione nei toni da “new frontier” kennediana di Matteo Salvini e il canto a lutto dell’Inno nazionale da parte del PD e della sinistra radicale. Pareva il coro del Nabucco: “…oh patria sì bella e perduta”. I deputati di FdI si sono dovuti mordere la lingua per non cantare insieme al PD. A lutto, perché l’unità nazionale sarebbe minacciata dal Disegno di legge.
Il dibattito nasce falso e si sviluppa allucinato, tale da impedire la percezione veritiera del contenuto del DdL e, quel che è pessimo, delle necessità e dei problemi del Paese.
Il primo dei quali è che il Paese è diviso da 163 anni tra Nord e Sud. L’avvio tardivo delle Regioni nel 1970, a boom economico esaurito, non ha attutito i divari storici. Che si sono allargati nel tempo. L’autonomia differenziata li dilaterà ulteriormente? Così sembra pensarlo la sinistra che qualifica il DdL quale “tradimento del Sud” o “secessione dei ricchi”.
Secondo l’accusa, le Regioni più ricche si terrebbero in tasca i tributi nazionali incassati nel proprio territorio. Salvini, noto ballista da comizio, ha raccontato in giro di una simile intenzione in questi anni. Ma nel DdL di Calderoli questa idea non c’è. Le funzioni devolute sono finanziate di anno in anno dallo Stato centrale in base alle risorse rese disponibili centralmente dalla legge di bilancio. È lo Stato che definisce la quantità dei fondi per ciascuna Regione.
Il fatto è che le Regioni del Sud e i loro corifei, quali i “governatori” De Luca e Emiliano, portatori di corposi interessi elettorali, attribuiscono l’arretratezza del Sud ad un perenne deficit di finanziamenti centrali. Ma le cause del distacco sono ben altre. L’elenco è lungo e arcinoto: il pessimo funzionamento dell’Amministrazione statale e delle Amministrazioni regionali; la politica come esercizio di assistenzialismo e di clientela; il deficit di etica pubblica dei cittadini e dei loro eletti; l’economia sommersa e il lavoro nero; il controllo di settori dell’economia, della società e persino dell’”ordine pubblico” parte delle mafie. La società civile e la politica sono complici consapevoli di questa condizione. Gli Enti locali, le Regioni e l’Amministrazione statale seguono.
I soldi pubblici vengono regolarmente bruciati in questa nera fornace. Donde l’impossibilità di realizzare i LEP. Le Regioni del Sud li hanno sempre rifiutati, proprio perché non sono prioritariamente questione di soldi, ma di efficienza amministrativa, di buona organizzazione dei servizi, di scelta del personale apicale in base alle competenze e non alle affiliazioni partitiche. Alle Regioni meridionali l’autonomia non interessa. Perché autonomia vuol dire responsabilità, valutazione, sanzioni. Interessano i soldi pubblici. D’altronde, se l’articolo 9 al terzo comma garantisce l’invarianza finanziaria anche per le Regioni che non partecipano ad alcuna intesa devolutiva, non solo continuerà a valere la continuità della spesa storica, ma essa aumenterà. Perché, in base al principio della proporzionalità delle risorse distribuite, se si aumentano le risorse necessarie a soddisfare i LEP delle Regioni che hanno chiesto la devoluzione delle funzioni, occorre aumentare le disponibilità delle Regioni che non chiedono l’autonomia. Le nozze sono sempre garantite. E anche i fichi secchi.
Nonostante la retorica pseudo-federalista e pseudo-liberale – dall’epoca di Berlusconi – neppure il centro-destra ha mai avuto la forza e il coraggio di mettere in discussione il meccanismo parassitario della spesa pubblica al Sud, per la semplice ragione che si tratta di un grosso bacino elettorale, nel quale la Lega, FI e FdL hanno pescato molto e sperano di continuare a farlo. E ovviamente ciò vale per il M5S e per il PD, che sta perdendo la rappresentanza del Nord del Paese.
Come ha precisato Roberto Formigoni, a lungo “governatore” della Lombardia, il disegno autonomista originario dopo il 2001 era un altro: la Regione chiedeva allo Stato una devoluzione di competenze, con gli stessi soldi spesi dallo Stato, non un Euro in più, nella convinzione e nella sfida di esercitarle meglio e di spendere meno. E non c’entravano i LEP, che erano e sono un dovere costituzionale dello Stato, con o senza Regioni. Così l’autonomia differenziata si presenta in questo DdL come un federalismo andato a male, a incominciare da quello fiscale, che pure era stato previsto dalla Legge del Legge 5 maggio 2009, n. 42, Berlusconi regnante.
Il DdL Calderoli “una secessione per ricchi”? No, solo un pasticcio politico-elettorale che non allarga il divario Nord-Sud. Lo lascia intatto. E pertanto peggiora la condizione dell’intero Paese.