LA BELLA CONFUSIONE

Oscar Iarussi

Giornalista e saggista.

L’attesa del verdetto, metafora di un Paese fermo

Aspettando la sentenza. Non proprio un’attesa da finale del campionato del mondo di calcio, quando le strade si svuotano e l’atmosfera si fa «messicana»: rarefatta, a tratti surreale prima del fischio d’inizio. Tuttavia la «partita» che si decide oggi in Cassazione a Roma – Berlusconi condannato definitivamente, rinviato a un nuovo processo d’Appello o assolto – suscita aspettative contrastanti, acutizza passioni, schiera tifoserie nelle chiacchiere da spiaggia o nei post su Facebook.

Dopo vent’anni di berlusconismo, uno degli effetti più evidenti di questa lunga stagione «televisiva» è giusto il diffondersi dell’idea che tutto corrisponda a un «evento», a un appuntamento imperdibile nel palinsesto del tempo, a una svolta del destino premiata dallo share. È uno schema antropologico culturale (oddio, culturale?) cui «la sentenza» pare attagliarsi alla perfezione. Essa non viene considerata l’esito fisiologico di una vicenda giudiziaria, bensì un’epifania del futuro che – ancora una volta – molti italiani s’attendono dai magistrati. Eppure Mani Pulite, a partire dal 1992, debellò una parte delle classi dirigenti e interi partiti della Prima Repubblica, senza cancellare la corruzione e la concussione sempre in agguato nelle relazioni fra economia, società e politica. Fa nulla. Dai giudici si brama una rigenerazione, una palingenesi, un cambio di stagione; ovvero, nel caso degli italiani filo-berlusconiani, si teme un disastro, una distruzione, un lutto «senza appello» riservato a «color che son sospesi» come Virgilio prima d’incontrare Beatrice nell’Inferno dantesco.

L’attesa è divenuta un paradigma nazionale, è il modello, il formato, il carattere di un Paese immobile, quasi alla Beckett nel coltivare la sfiducia verso l’azione, la fantasia, il coraggio. Vladimiro ed Estragone nel celebre testo del drammaturgo irlandese si lamentano e litigano, però sono dipendenti l’uno dall’altro, nell’attesa dell’invisibile Godot. Un nonsenso sublime, un teatro dell’assurdo che in Italia – culla della commedia dell’arte – assume spesso tonalità tragicomiche. Se Berlusconi oggi fosse condannato per frode fiscale nella compravendita dei diritti televisivi Fininvest, ciò corrisponderebbe davvero a un verdetto sulla sua azione politica? C’è chi lo crede e tende a coinvolgere in tale presunta cesura netta col passato anche gli elettori di Berlusconi, i quali col senno di poi dovrebbero pentirsi dei voti concessigli. Mah. È più plausibile che l’aureola del «martire» delle «toghe rosse» intorno al capo del capo finisca per giovare al centro-destra.

D’altro canto, un’assoluzione in Cassazione non andrebbe considerata alla stregua di un giudizio politico né tanto meno storico. Le responsabilità del Cavaliere, che in un altro Paese innanzitutto i «suoi» gli avrebbero imputato da tempo, riguardano in primis l’incapacità di sbloccare un Paese bloccato, nonostante l’enorme consenso di cui ha goduto per anni. Lui, uno «spirito animale» del capitalismo milanese, l’imprenditore rampante, il seduttore impenitente, lui s’è dovuto accontentare simbolicamente di un coito interrotto. Mentre l’Italia si abituava all’astinenza da ogni principio vitale ed erotico, e finiva dritta dritta in quelle forme di depressione, declino, inazione che sono cause della crisi in atto, non effetti.

Intanto la sinistra – ha ricordato ieri Francesco De Gregori intervistato dal «Corriere della Sera» – preferiva porre domande su Noemi Letizia invece che sull’Ilva di Taranto. Cosa furono, nella campagna di stampa di una grande testata, le «dieci domande» a Berlusconi, se non l’attesa di risposte che non sarebbero giunte? Cosa ha fatto la sinistra italiana in questi ultimi dieci anni se non aspettare, propiziare, invocare, ritualizzare, metaforizzare una sentenza definitiva sul «Caimano»?

Comunque vada, oggi sarà un insuccesso. E assume un sentore beffardo che uno dei protagonisti in aula si chiami Coppi – il professore genio del foro -, come «l’uomo solo al comando» grazie al quale l’Italia volava sulle vette nel dopoguerra. Gli italiani lo aspettavano in curva, il «campionissimo», per affidargli un sogno. Oggi davanti alla Tv o al computer l’attesa è per qualcosa che non cambierà granché – tranne forse per Berlusconi – persino se cadesse il governo (e non cadrà).

(Articolo pubblicato sulla “Gazzetta del Mezzogiorno”, 1 agosto 2013)

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