Un uomo si chiude in una stanza d’albergo, portando con sé un intero arsenale. E’ una prima notizia. Nel suo Paese, evidentemente, si può uscire di casa e portarsi per il week end una decina di fucili in valigia. Lui giunge a destinazione, sceglie un piano alto, lì sotto si riunirà la folla che assisterà a un concerto. E’ buio ormai, la folla è enorme e lui comincia a sparare. Non si conosce ancora il bilancio della strage, almeno cinquantotto morti, si dice di più, centinaia e centinaia di feriti. Lui poi si suicida. Fuori, mentre i soccorritori sono ancora al lavoro, comincia una strano confronto: è terrorismo? Purtroppo mi sembra che l’attentatore di terrore ne abbia diffuso abbastanza. Eppure, almeno sin qui, gli inquirenti dicono di no. Non è un terrorista, è un folle. Bianco, ci informano rapidamente, anziano, senza precedenti penali o di altra natura. Ritenuto stranamente attendibile nelle sue rivendicazioni, l’Isis ha sorpreso molti, reclamando la responsabilità dell’azione: l’assassino si sarebbe convertito qualche settimana fa. Ipotesi neanche considerata nei titoli del New York Times o di altri grandi giornali Usa, né citata dal presidente Trump nel suo discorso alla nazione…
Ma la rivendicazione ci costringe a chiederci: il suo “terrorismo” in cosa sarebbe diverso da quello realmente dell’Isis? Cosa lo differenzierebbe, per stare alla cronaca delle ultime ore, da quelli canadese o francese?
Per muoverci in questo ginepraio drammatico occorre tenere presente la mutazione di quello che chiamiamo terrorismo. Un tempo i terroristi si nascondevano, organizzavano sequestri, stragi, poi fuggivano, sperando di salvarsi e di portare avanti il loro progetto “rivoluzionario”. Oggi sono terroristi suicidi. Sembrano avere un progetto: diffondere l’odio, uccidendo innocenti lontani da zone di conflitto, usando se stessi come arma di morte, propria e altrui. Non può essere l’odio la malattia che affliggeva lo stragista di Las Vegas? Odio per il vicino di casa, per i giovani, o per chi non salutava, non so… Questo terrorismo è qualcosa che per noi è difficile capire, e quindi la matrice più imperscrutabile, quella religiosa, ci sembra la più comprensibile. Poi c’è lo squilibrato. Ma si possono ritenere gli attentatori suicidi delle persone “equilibrate”? La rivendicazione dell’Isis, neanche considerata negli Usa, ha in questa similitudine la sua verosimiglianza. Lo squilibrato non ha tratti somatici diversi dai nostri, non ha lasciato farneticanti messaggi registrati, con inciso magari “Dio è il più grande”, ma odia… Inutile chiedersi come possa un anziano signore senza precedenti penali o altro essersi “convertito”, “radicalizzato” e divenuto un lupo solitario istruito via web in meno di un mese. Sapere che ci odia ci farebbe paura, mentre la categoria “religiosa” ci lascia sgomenti ma in certo senso ci rassicura: sono loro i terroristi, dunque sono loro la minaccia, sono loro quelli che vanno controllati! Ma allora anche la natura del folle sembra fatta per rassicurarci: non c’è un progetto, era solo un folle, non c’è organizzazione, non c’è categoria aggiuntiva da sorvegliare, o temere. E’ solo un pazzo…
Le mani che uccidono non sono tutte uguali: il terrorismo in Medio Oriente ha origini e responsabilità militari e culturali, qui da noi, fuori dalle zone di conflitto, non potrebbe esserci una nuova radice nichilista e malata? Un malessere che in varie forme diventa odio, frustrazione, rabbia, follia…
Se qui dentro può esserci anche qualche pezzo della verità sociale sulla quale ragionare, allora la discussione sul controllo delle armi negli Stati Uniti diviene tanto urgente quanto parziale. Nel caso americano c’è, notoriamente, una dolorosissima peculiarità alla cui base vi è l’incredibile libertà di girare armati che si spiega solo con lo strapotere della lobby delle armi. Ma oggi quel “pazzo” è riuscito a intrufolarsi, probabilmente per speculazione propagandista, in un confronto sul terrorismo. Almeno qui da noi.
Forse dovremmo fermarci un momento e interrogarci su come curare il nostro sistema mediatico e le nostre società, per tornare a vivere insieme e sconfiggere questo senso di solitudine, di precarizzazione, di esclusione, di fallimento, di disperazione, di rabbia, di odio, quello che a me appare una radice inesplorata del nuovo terrorismo.
Avvicinarsi alle persone invece che pensarle monadi, cercare un’etica globale invece che un ipotetico luogo identitario nel quale barricarci, questa forse sarebbe la risposta più urgente all’interrogativo posto dalla tragedia di Las Vegas.
Da questo punto di vista credo importante riflettere sulla distinzione importantissima che fece il cardinale Bergoglio tra città globale e città locale. La città globale propone le stesse spese, gli stessi divertimenti, gli stessi consumi, le stesse mode, gli stessi modelli, gli stessi acquisti in ogni città. La città locale, ai suoi margini, diviene il ricettacolo di ciò che la città globale rifiuta: povertà, solitudine, miseria. E’ solo uno spunto per riflettere sull’abisso creatosi in ogni metropoli, sui muri che non vediamo, e che possono aiutarci a capire i fenomeni che si sviluppano intorno a noi. Anche, in parte, quello del nuovo terrorismo suicida.
Las Vegas: diversità e convergenze tra terrorista e squilibrato
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