«Tengo a precisare che il mio è stato un sentimento d’amore vero per Silvio Berlusconi». L’agghiacciante precisazione di Nicole Minetti in aula al processo Ruby-bis, lo scorso 7 giugno, non può essere derubricata a una semplice esternazione di natura personale, nient’altro che un dettaglio – in fondo, il meno scabroso – nel mare di liquami politici, esistenziali e antropologici in cui naviga il processo che vede coinvolti (oltre all’ex-premier) i maggiori fiori all’occhiello del trash politico-televisivo italiano.
Non può essere derubricata a ennesima, improbabile esternazione dell’ex-consigliera regionale milanese, perché tutta la vicenda Ruby si gioca – come nella “migliore” tradizione italiana del patetismo degenere e sensazionalistico – sulla esposizione, manipolazione e mortificazione dell’elemento sentimentale e sessuale. Su questo elemento fanno leva, a diverso titolo e con finalità varie, i protagonisti del procedimento in atto: Berlusconi cerca di far apparire le sue “cene con ragazze” qualcosa di normale e ordinario, in cui al paternalismo del vecchio milionario di buon cuore, prodigo di aiuti verso queste giovani, povere disagiate, si unisce il sottile ammiccamento al machismo latente del maschio italiano che, in fondo, quasi lo ammira come una specie di don Giovanni la cui sindrome sessuale (e la capacità di disporre di donne in grado di soddisfarla) è, in fondo, il miglior indice del suo potere personale. Ruby si mostra ora, con le dichiarazioni rese davanti al tribunale, come una donna integra, una madre decisa a difendere la dignità sua e della prole, disposta a tutto pur di recuperare una qualche innocenza alla propria condotta. Per non parlare delle argomentazioni da incolpevoli viveur, responsabili al massimo di amare il bello e la spensieratezza, come tanti simpatici, anzianotti ma innocui Peter Pan, sfoggiate dai vari parvenu coinvolti nel procedimento. Fino all’esternazione massima della Minetti, che parla addirittura di “vero amore”.
A parte che saremmo felici di apprendere finalmente dalla signora Minetti che cosa sia questo fantomatico, straordinario “vero amore” di cui avevamo imparato ad apprezzare la natura di idealità romantica, quasi un residuo della tradizione culturale e letteraria che ha caratterizzato l’immaginario occidentale dai tempi più remoti, senza corrispondere a nulla di preciso (e, forse, a nulla di esistente). Ma, senza impegnare la nostra in analisi dal respiro troppo ampio e intellettualistico, ci accontenteremmo di sapere da lei in che modo questo presunto “vero amore” potrebbe giustificare o in qualche modo attenuare gli illeciti, che coinvolgerebbero in primis (oltre a lei) l’allora premier, vale a dire la teorica guida politica del Paese, e su cui il processo tenta di far luce. Vecchio trucco, quello di far leva sull’animo fondamentalmente sentimentale dell’italiano “medio”; sul sussulto da sospensione del giudizio che pare sollevarsi a ogni accenno ai grandi misteri esistenziali. Il prossimo passo, verrebbe da suggerire alla Minetti, potrebbe essere quello di ricorrere alla paura della morte, al senso di lento, inesorabile spegnimento delle energie vitali come giustificazione estrema delle condotte del suo “amato” e degli altri imputati.
Va da sé che non basta parlare di grandi cose, per risultare più credibili: spesso, ed è questo il caso, ricorrere ai grandi temi della vita in contesti di malcelato degrado può avere solo l’effetto di aumentare il senso del ridicolo. Non vi è bisogno alcuno di ricordare le intercettazioni in cui, certo con “vero amore”, la Minetti parlava del «culo flaccido» del suo amato, o mostrava – sempre per “vero amore” – piena consapevolezza del giro di “accompagnatrici” (da lei organizzato e diretto, secondo l’accusa) che ruotava attorno all’ex-premier e al suo entourage, mentre nella deposizione spontanea del 7 giugno dichiarava di credere in piena ingenuità che «la relazione con Silvio fosse esclusiva» – perché, si sa, chi “ama veramente” è cieco e certe magagne le scopre sempre per ultimo. E malgrado ciò, è stato facile perdonare questa mancanza di esclusività e rimanere «straordinari amici», lei e Berlusconi – capita a tutti, per “vero amore”, di perdonare milioni di corna e restare in affari. E non è vero che Nicole Minetti gestisse traffici loschi all’Olgettina: le accuse si fondano solo su un «malcelato moralismo» privo di indizi concreti di reato. Su questi ultimi, dovrebbe far luce il processo in atto.
Qualcosa c’è da dire, invece, sul “malcelato moralismo” che la Minetti denuncia e che gli alfieri del berlusconismo utilizzano come spauracchio da agitare contro gli avversari ideologici e anche in tribunale. Va da sé che scandalizzarsi perché un politico fa i festini e si diverte con le ragazzine è cosa insensata: non succede solo in Italia (sebbene da noi sia diventato una specie di sport nazionale), e non succede da oggi. Scagliarsi contro i costumi privati dei politici, sui loro gusti e orientamenti sessuali, e sulle loro abitudini nelle proprie case, è del tutto inutile: i difensori hanno buon gioco a insistere sul carattere sacrosantamente privato di queste condotte. Ma se per “moralismo” s’intende la contestazione dell’ipocrisia su cui si fonda il messaggio pubblico della politica, improntato – quello sì – a un moralistico, catechistico, esemplare senso di responsabilità, correttezza e sobrietà, beh tale contestazione non ha nulla di “moralistico” e soprattutto nulla di “malcelato”. Chi contesta questa ipocrisia lo fa apertamente e senza alcuna preoccupazione di risultare “moralistico”: un’obiezione, questa, tautologica e che esprime solo l’incapacità di difendere o giustificare lo scollamento tra politica e comportamenti reali. E sostenere che la politica è un conto, e i comportamenti reali un altro, ricorrendo magari – come ho sentito spesso fare in modo grossolano e ignorante – alle argomentazioni machiavelliane del caso, risulta penoso: perché quelle argomentazioni erano volte a garantire un fine nobile, l’unità dello stato, e non a dividere quest’ultimo radicalizzando il senso di distanza dalla società civile di una casta di politici privilegiati dediti alla gozzoviglia e al divertimento sfrenato, mentre la base sociale è impegnata nella lotta contro condizioni materiali di assoluta crisi.
Non ci si fa scrupolo, così, a monetizzare l’estrema gratuità, quell’“amore” tirato in ballo qua e là in funzione nobilitante, esasperando un altro tratto che ha sempre accompagnato la storia evolutiva e culturale del sentimento umano: la capacità feroce dell’uomo di dare un prezzo a tutto, pur di ottenere ciò che soltanto un dono estremo potrebbe – con tutte le incertezze del caso – far accadere. Parallelamente, scorre il senso di colpa atavico per questo tradimento dell’ideale, che induce anche l’umana-più-che-umana Nicole Minetti a proclamare l’“amore vero”. Fino a che dinanzi allo spettacolo di questa umanità sovraesposta non resta, come ultimo sentimento “spendibile”, il più colpevole di tutti: la pietà.
Federica Buongiorno