CROCE E DELIZIE

Corrado Ocone

Filosofo

L’altro, il dono, l’Utile. Per una radicale filosofia dell’umano

In un’ amabile conversazione serale fra amici organizzata dal direttore della rivista che ospita questo blog si è discusso recentemente con Pier Aldo Rovatti della tematica dell’ “altro”: del suo statuto ontologico, diciamo così, e del rapporto che ci tocca intrattenere. L’ “altro” è ovviamente l’ospite, lo straniero, il diverso: colui che, con la sua semplice presenza, ci spiazza e mette in crisi le nostre certezze e sicurezze. La tematica, in auge in certo pensiero contemporaneo, ha richiamato quasi naturalmente un altro argomento à la page in settori culturali soprattutto francesi: il dono. Un dono per essere veramente tale, ci ha detto Rovatti sulla lunga scia del movimento antiutilitaristico d’oltralpe, deve essere assolutamente gratuito. Da esso non ci si deve aspettare nessuna ricompensa, fosse anche un vago riconoscimento morale. La gratuità del dono fa sì che esso esca del tutto dalla logica economica o dello scambio, finendo per attingere quella dépense o “dispensa” a cui faceva riferimento Georges Bataille. In questa impostazione del tema io vedo all’opera un vecchio pregiudizio, davvero duro a morire: quello della negatività del momento dell’Utile, dell’interesse personale e privato come qualcosa di cui in fondo in fondo occorre vergognarsi. E’ come se, nel profondo degli animi di certe persone, anche di cultura raffinata e superiore, rimanesse un’ombra di quel sacro che nemmeno una secolarizzazione compiuta del mondo, un’integrale laicizzazione, riuscirebbe forse a scalfire. E’ lo stesso elemento arcaico, forse archetipico, che detta ad esempio e spesso, in maniera quasi irriflessa e spontanea, un sottile pregiudizio anticapitalistico anche in uomini di mondo e di affari che si inventano assurdità come la cosiddetta “responsabilità sociale delle imprese” o similia. E quanti a dire che l’utile va sì praticato sì, ma temperato, controllato, arricchito di momenti di assoluta gratuità. Io credo invece che per noi non sia possibile uscire, nella vita pratica intendo dire e non in quella teorica, dal momento dell’utilitarismo, se non, come aveva intuito Nietzsche, nei casi-limite dell’orgia dionisiaca e panìca o dell’estasi mistica. Essi solo, qualora fossero raggiungibili nella loro perfezione, rappresenterebbero un annichilimento o annullamento della nostra individualità. Ecco, l’interesse personale non è negativo semplicemente perché è il momento della nostra individuazione, il momento in cui ci facciamo persone (l’individuo non è dato ab origine come crede certo ingenuo liberalismo) e quindi enti finiti il cui orizzonte è necessariamente l’immanenza (quella che ha in se stessa il momento del trascendente). Non si tratta solo di smascherare la fallacia della presunta gratuità del dono (si dona persino per avere l’approvazione di un Dio, il cui rapporto con noi stessi è concepito in modo utilitaristico, o di una parte di noi stessi). Si tratta più radicalmente di capire che fare i propri interessi non è un male, è legittimo, “naturale” per così dire, persino bello nel senso che può darci gioia (se ovviamente non reca danni a terzi). E si tratta anche di comprendere come la ricerca del proprio interesse è la precondizione di ogni bene possibile, che sia vero ed efficace voglio dire. Persino l’amore ha in sé, se non vogliamo essere ipocriti, un momento utilitaristico. Come dice Croce in un memorabile “frammento di etica”, “le anime, quali che siano le apparenze, nell’amore non si accomunano, anzi ciascuna tira a sé, onde quel certo che di egoistico e di ostile che spunta improvviso tra le maggiori ebbrezze del reciproco abbandono”. Non prendiamo di petto certe tendenze, nemmeno nelle sofisticate forme di una discussione sull’ospite. Consideriamole piuttosto un aspetto di quel quotidiano dir di sì alla vita che ci costituisce.

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