E’ uscito in questi giorni per i tipi di Princeton University Press un volume di Bernard Williams : Essays and Reviews 1959-2002, a cura di Michael Wood. Si tratta di una interessantissima raccolta di articoli, recensioni, brevi saggi del grande filosofo inglese, morto poco più di dieci anni fa (il 10 giugno 2003) a Roma (era nato a Westcliff-on-Sea il 21 settembre 1929). Si può dire che, con la pubblicazione di questo libro, il corpus delle opere di Williams pubblicate sia pressoché completo: postume sono infatti uscite, sempre per i tipi di Princeton, tre importanti raccolte di saggi: In the Beginning Was the Deed: Realism and Moralism in Political Argument, a cura di Geoffrey Hawthorn, nel 2005; The Sense of the Past: Essays in the philosophy of History, a cura di Myles Burnyeat, e
Philosophy As A Humanistic Discipline, a cura di A. W. Moore, entrambe nel 2006 (tutte tradotte in italiane e pubblicate da Feltrinelli, rispettivamente nel 2007, nel 2009 e nel 2013). Ovviamente, in questo caso si tratta di saggi con una destinazione d’uso più ampia di quelli accademici, ma non per questo direi che siano meno importanti. Soprattutto perché Williams, avendo sviluppato una prospettiva filosofica che sfocia in una riflessione sulla morale, si propone di trovare il suo banco di prova nei problemi della quotidianità, sia in quella privata sia nella pubblica. La tensione all’etica non è certo una novità nel pensiero degli ultimi decenni, ma la forza di Williams è di essersi opposto con forza alla corrente dominante nel settore: l’etica normativa. La quale, in sostanza, interpreta il suo compito in modo non filosofico, pretendendo di “applicare” ad una realtà giudicata esterna all’io, le proposizioni di verità che quest’ultimo sarebbe in grado di ritrovare in un fantastico (iperuranico potremmo dire) mondo delle idee e dei valori. Altra cosa sono invece il nostro dialettico rapporto con il mondo, il nostro coinvolgimento con esso al di là di ogni separazione intellettualistica fra io e realtà, la tensione e la conflittualità che ci costituisce e costituisce lo stesso nostro rapporto col bene. Un bene concreto, possibile e realizzabile, non immaginario. Non è nemmeno un caso, pertanto, che Williams fosse un propugnatore deciso del realismo politico. La sua “svolta storicistica”, come la chiamò in un’ intervista rilasciata nel 2001 alla Harvard Review of Philosophy, significa anche la consapevolezza, per un’etica non parolaia o non semplicemente di testimonianza (come l’ “etica della convinzione”), di calarsi nei rapporti di forza reali e diventare effettiva e concreta (come la laica “etica della responsabilità”). Non meraviglia nemmeno il continuo riferimento di Williams a Nietzsche, che a prima vista sembrerebbe alquanto eccentrico rispetto al nucleo ideale a cui si richiama il nostro e che è costituito dalla grande tradizione della “scuola storica”, e soprattutto dal pensiero di Robin George Collingwood, le cui idee erano “aria comune” ad Oxford quando Williams si laureò, nel 1951, anche se il filone dominante era già ormai quello analitico (a Collingwood è dedicato un capitolo ne Il senso del passato). In verità, Williams è attratto soprattutto dal Nietzsche della “genealogia della morale”, quindi dal filosofo che smonta le costruzioni di pensiero dogmatiche e mostra come anche le norme che sembrano più universali e disinteressate nascondano rapporti di potere e svolgano spesso una funzione non propriamente morale. La funzione decostruttiva, come suol dirsi, svolta da Nietzsche ha a che fare con il liberalismo in quanto critica del potere in ogni sua forma o stabilizzazione (in primis quella teorica). Per il liberale, quale Williams si considerava, la funzione della critica e del dissenso è in un certo modo più importante di quella positiva dell’affermazione. Che è necessariamente sempre imperfetta, provvisoria, contingente. È interessante perciò vedere, dicevo, come Williams mette in azione la sua visione del mondo di fronte a problemi concreti. Egli, in effetti non fu affatto un pensatore chiuso nell’accademia, ma svolse un’intensa vita pubblica sia come membro o presidente di numerosi commissioni reali o governative sia appunto come opinionista. Gli articoli e le recensioni raccolte nel volume della Princeton furono scritte per “The Sunday Times”, “New York Review of Books”, “london review of Books2, “Times Literary supplement”, “Spectator”, “Observer”, New Statsman”, ecc. Essendosi occupato spesso di questioni come la pornografia, la censura, il gioco d’azzardo, l’abuso delle droghe, egli, con sottile ironia, diceva di aver “praticato tutti i vizi”. L’ironia, anche come forza decostruttrice, così come era lo scetticismo per Oakeshott, lega Williams al suo amico Isaiah Berlin (che continuò a insegnare a Oxford quando egli passò a Cambridge divenendone rettore). Così come a Berlin e a Oakeshott lo lega pure il fatto di aver scritto poche monografie e di avere affidato il proprio pensiero soprattutto ai saggi, più rispondenti alle esigenze di un pensiero post metafisico e quindi anti sistematico. L’auspicio, infine, è che anche questo volume di Williams sia presto tradotto in italiano, come è stato per la maggior parte delle sue opere (mentre lo stesso non può dirsi, come sappiamo, per quelle di Oakeshott).
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